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Mercoledì 02 Luglio 2025
Il diavolo nell’arte e il fascino del male
Libri Il saggio di Laura Pasquini analizza l’evoluzione dell’immagine demoniaca dalla Tarda Antichità ad oggi. Un percorso diacronico utile a comprendere le strategiche mutazioni adottate dagli artisti nel corso dei secoli
Da sempre il male produce nella psiche umana un fascino superiore rispetto al bene. Prova ne è l’interesse di cui gode la cronaca nera, nemmeno paragonabile rispetto alla bianca. Assassini, truffatori, delinquenti di ogni tipo grazie al medium televisivo diventano presto personaggi, star nei salotti, inseriti in un racconto romanzato che eccita la mente dello spettatore. E a proposito di romanzi, troppo facile citare la proliferazione della letteratura criminale e poliziesca, con gialli e thriller, spesso con trame che si assomigliano tra loro, sempre in cima alle classifiche. Lo stesso si potrebbe dire dei grandi fatti storici: sono sempre i dittatori, quelli che sono stati in grado di fare del male un mezzo per arrivare al potere, a generare maggior interesse. Insomma, talmente cinico è il male da risultare forte e autentico, al contrario del bene spesso debole e quindi ridicolizzato
Tra le varie materie umanistiche, non fa eccezione la storia dell’arte, che storicamente ha scelto la rappresentazione del diavolo come simbolo evocativo di ogni male. Dipingerlo nel corso dei secoli è stato un modo per esorcizzarlo, riconoscerlo, provando a difendersi. E proprio su questo tema si concentra il prezioso saggio di Laura Pasquini, titolato proprio “Il diavolo - Storia iconografica del male” (Carocci, pp. 374, 39 euro), che analizza l’evoluzione dell’immagine demoniaca dalle prime attestazioni nella Tarda Antichità fino ai giorni nostri, individuandone via via le strategiche mutazioni, le eventuali novità, le possibili motivazioni storiche.
Trasformazioni e inganno
«Studio il diavolo da 15 anni – spiega l’autrice, storica dell’arte medievale presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna – Trovo quella del diavolo un’iconografia interessante proprio perché in continua mutazione. Cristo o la Vergine possono essere studiati secondo variazioni stilistiche, ma sono sempre riconoscibili nella sostanza. Il diavolo invece affascina perché cambia con i tempi e con le paure dell’uomo. La trasformazione è la sua cifra, del resto il diavolo è un inganno»
E in effetti il saggio è arricchito da numerose immagini, utili proprio a sottolineare il percorso di tali cambiamenti, che prevedono differenze anzitutto legate ad aspetti religiosi: «Nelle società politeiste, pensiamo al pantheon greco o romano, non era necessaria un’entità che rappresentasse in assoluto il male. Gli Dei erano buoni o cattivi a seconda delle occasioni, persino Zeus poteva ostacolare un eroe. Diverso negli ambienti monoteisti, che stabiliscono un Dio onnipotente e sommamente buono: questo andava equilibrato da una nuova figura a cui attribuire il lavoro sporco, perché nel mondo il male esiste, non si può negarne l’esistenza».
Strategie nel tempo
Riguardo le strategie di rappresentazione dei diversi artisti, queste derivano da fonti differenti che nel corso del tempo hanno previsto diverse variazioni: «In origine gli artisti non sapevano come rappresentare il diavolo. La cosa più semplice fu prendere come modello gli animali che già nei testi biblici erano stati distinti in puri e impuri. Questi sono diventati in poco tempo espressione del maligno: porci, serpenti, draghi, gatti, scimmie. Successivamente, guardando ai drammi profani e alle rappresentazioni teatrali, alcuni autori cercano di distaccarsi in parte dalla figura felina, che comunque viene mantenuta perché la bestialità è una componente importante. Il rapporto tra antropomorfismo e animalità rimane sempre presente. Anche nei manoscritti il diavolo presenta tratti sempre differenti: con le ali o non, glabro o non, blu o rosso…».
Come si evince dal saggio di Pasquini, la grande stagione del diavolo è iniziata durante il periodo romanico e gotico, per poi conoscere diverse oscillazioni nel corso dei secoli: «Nel Medioevo è mostruoso, lontano dall’uomo, all’inferno. Poi l’inquisizione crea uno scarto pericolosissimo, identificando il diavolo nelle persone che ci vivono accanto: la strega, l’ebreo, il musulmano. Dunque la questione di ricercarlo nell’uomo è grande negli artisti, e notiamo una tendenza ad umanizzarne la figura soprattutto nel Rinascimento italiano. L’exploit del periodo romanico e gotico è dettato proprio dalla persecuzione degli eretici. Si diffonde una grande paura verso tutto ciò che va contro i dettami della chiesa cattolica. Il diavolo è il grande oppositore, inizia a riempire le chiese, i capitelli, gli affreschi. Si espande nello spazio dell’inferno e viene rappresentato con dimensioni sempre maggiori. Solo con il secolo dei lumi, nel tentativo di accantonare stregoneria e superstizione in nome della ragione, si prova a eliminarlo. Ma il male continua a esserci e nemmeno i filosofi sono in grado di risolvere la questione. E proprio in questo periodo vengono alla luce due testi fondamentali che cambiano ancora la prospettiva: il “Paradiso perduto” di John Milton e il “Faust” di Johann Wolfgang von Goethe. Questi ci descrivono il diavolo in positivo, simbolo della grande rivolta. Assistiamo alla secolarizzazione del diavolo, capace di introspezione e interazione con l’uomo. Una visione pericolosa, perché il diavolo che presenta queste caratteristiche è irriconoscibile».
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