Il rock’n’roll non è più giovane. Adesso è storia

Musica Con la scomparsa di Jerry Lee Lewis ci ha lasciato anche l’ultimo dei “pionieri”. Tutto incominciò con un signore un poco pingue

Il rock è morto? Se lo sono domandati in tanti ed esistono diverse teorie in merito, ma quello che è certo, ineluttabile, è che con la scomparsa di Jerry Lee Lewis, a 87 anni venerdì scorso, se n’è andato l’ultimo dei grandi pionieri che, quasi settant’anni fa, contribuirono a gettare le fondamenta di quella musica che ci ostiniamo a definire “giovane”. Questo perché esistono le registrazioni, i dischi, che non hanno età, per cui il selvaggio “killer” del pianoforte sarà sempre lo scapestrato pestatasti che tormentava lo strumento gridando “Whole lotta shakin’ goin’ home” e “Great balls of fire” così come, grazie anche alle tantissime foto, ai filmati e ai “musicarelli” made in Usa, tutti quei ragazzi terribili rimarranno, per dirla con il discepolo Bob Dylan, “forever young”. E dire che il primo di loro sembrava già anzianotto all’epoca.

La rivoluzione

Bill Haley era un signore pingue e non troppo attraente sulla trentina quando azzeccò “(We’re gonna) Rock around the clock”. Non è la prima canzone del genere – ci sono diversi pretendenti al primato – ma la rivoluzione partì da lì, dai titoli di testa de “Il seme della violenza”, con i ragazzini che entravano nei cinema, aspettavano il brano, sfasciavano tutto e poi se ne andavano.

Epocale, al punto che iniziò una vera e propria corsa al rock da parte delle case discografiche nazionali, che si erano lasciate battere sul tempo da etichette più piccole come quella dei fratelli Phil e Leonard Chess a Chicago, che lanciò Chuck Berry e Bo Diddley, o la Sun Records di Sam Phillips che poteva contare sullo stesso Jerry Lee Lewis, su Carl Perkins, l’autore di “Blue suede shoes”, su Johnny Cash, Roy Orbison e, soprattutto, su Elvis Presley. Phillips aveva espresso un desiderio: “Se avessi un bianco che canta come un nero... farei milioni di dollari”, perché negli Stati del Sud dove vigeva ancora la segregazione, la divisione era netta e i rampolli della borghesia wasp non avrebbero mai acquistato i “race records”.

Non si sa quale lampada sfregò il buon Sam, ma il suo desiderio venne esaudito quando nei suoi studi si presentò Elvis Presley. Era perfetto: cantava benissimo, era bellissimo, aveva il ciuffo ribelle e “la mossa – olé – dell’anca”, perfino il nome sembrava uno pseudonimo. Era tutto quello che i ragazzini (e le teenager) volevano. Era, semplicemente, “il” rock.

E qualcosa iniziava a muoversi anche nei termini di superamento delle barriere, basta vedere il successo interrazziale di geni come Fats Domino e, soprattutto, l’incontenibile Little Richard, l’unico vero rivale di Jerry Lee come sfasciapianoforti. Così anche artisti non esattamente rock come Ray Charles o Screamin’ Jay Hawkins, Jackie Wilson o Sam Cooke, oppure il selvaggio James Brown trovarono un’audience bianca.

Il furto

Del resto, ognuno di questi sosteneva che quella musica era stata rubata agli afroamericani. Non che mancassero i visi pallidi: ai grandi finora si devono aggiungere Gene Vincent, Eddie Cochran e lo sfortunato Buddy Holly. Fu il primo ad andarsene: un incidente aereo se lo portò via il 3 febbraio del 1959, assieme a Ritchie Valens, quello di “La bamba”, e a J.P. Richardson, più noto come the Big Bopper (perché dietro agli artisti di punta c’è una miriade di “minori” solo per vendite, come gli scatenati Johnny Burnette, Jack Scott e Charlie Feathers, ma anche Hank Ballard, Bobby Bland, Richard Berry, Bobby Freeman, Lloyd Price, l’elenco è sterminato). “Il giorno in cui la musica morì”, si disse e, da allora, ci si interroga sullo stato di salute del rock’n’roll che, nel passaggio tra gli anni Cinquanta e i Sessanta segnò una battuta d’arresto,

Nel senso letterale del termine per Chuck Berry – tradotto in galera per spaccio – mentre Presley fu arruolato e spedito in Germania, Cochran perse la vita in un incidente che costò quasi la buccia anche a Vincent mentre Jerry Lee, è fatto noto, venne ostracizzato dopo un tour europeo in cui si scoprì che aveva sposato, in terze nozze a soli 22 anni, la sua cuginetta tredicenne. Interessante notare come, per decenni, siano stati irrisi gli inglesi bacchettoni, quando oggi l’età della ragazzina e la parentela stretta non lascerebbero scampo al sardonico Lewis.

È arrivato a un’età veneranda lasciandosi alle spalle quello e altri scandali il successo, la fama e anche una serie di tragedie che avrebbero fiaccato chiunque, ma non quello che si era definito “The last man standing”. Con la sua morte il rock’n’roll entra definitivamente nella storia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA