L’era del “mollusco”: Bradbury visionario ma anche realista

Libri L’analisi di “Fahrenheit 451”, romanzo distopico dell’autore statunitense, riproposto da Mondadori. I pompieri bruciano i libri e comanda il pensiero unico

Diceva Leo Longanesi che nell’ambiente artistico i settant’anni sono come le colonne d’Ercole: un punto di non ritorno, oltre il quale si profilano scenari nebulosi. Una volta che lo si è oltrepassato, secondo lo stesso Longanesi, gli altri frequentatori dell’ambiente cominciano in maniera piuttosto losca a chiamarti “maestro”, si inchinano con devozione al tuo cospetto ma ti invitano (nemmeno troppo cortesemente) a farti da parte.

Sette decenni costituiscono le colonne d’Ercole e sono un periodo considerevole anche nella vita di un libro, che può andare incontro all’oblio oppure diventare molto celebre e trasformarsi in un classico. Quest’ultima eventualità, anche in virtù dell’omonimo film del 1966 di François Truffaut, si è fortunatamente (e giustamente) verificata nel caso di “Fahrenheit 451”, pubblicato nel 1953.

Collana celebrativa

In poco più di settant’anni – per contenuti, preveggenza, ma anche per le credenziali stilistiche, l’altissima qualità di scrittura e lo spicco simbolico di molte sue parti – l’immenso capolavoro di Ray Bradbury si è infatti affermato come uno dei più grandi romanzi distopici del ventesimo secolo, insieme a “1984” di Orwell, “Noi” di Zamjatin e “Il mondo nuovo” di Huxley. Ma non solo: “Fahrenheit 451”, che si potrebbe forse definire il “Libro dei libri sui libri”, è ormai un punto di riferimento essenziale quando si parla del libro, della sua funzione e del suo futuro (beninteso: quando se ne parla senza ricorrere a una vieta e strumentale retorica e senza esaltare il libro come oggetto o feticcio, a prescindere dai contenuti).

Non stupisce, quindi, che sia una delle opere di punta della collana varata da Mondadori per celebrare il sessantesimo anniversario degli Oscar, con la ristampa dei venti titoli più celebri in una nuova veste e l’aggiunta di un cofanetto che contiene dettagli e informazioni sulla storia e la fortuna editoriale del volume in questione (“Fahrenheit 451” è in ottima compagnia: tra gli altri titoli, solo per citarne alcuni, figurano “Addio alle armi” di Hemingway, “Cent’anni di solitudine” di Garcia Márquez, “La ragazza di Bube” di Cassola e “Un amore” di Buzzati).

Per capire fino a che punto “Fahrenheit 451” sia davvero il “Libro dei libri sui libri”, basta ripercorrerne la trama: in un paese altamente industrializzato del futuro, i pompieri bruciano i libri anziché spegnere gli incendi (il titolo rimanda alla temperatura, corrispondente a 232,778 gradi Celsius, che segna la soglia termica alla quale brucia la carta). Perché i libri, in quanto espressione della creatività individuale e dell’invenzione poetica, non hanno più senso in una società dove la tecnologia e il pensiero unico hanno preso il totale sopravvento e le idee sono state inghiottite dall’indifferenza prodotta dai mezzi di comunicazione di massa. L’unica salvezza possibile, che Bradbury suggerisce nelle ultime pagine, è costituita dal ritorno all’oralità, coi fuggiaschi e superstiti che riparano nel folto dei boschi e si sforzano di salvare nella memoria i capolavori di quella Goethe aveva definito “letteratura universale”.

Mutazione antropologica

L’autentico realista è il visionario, ha detto Federico Fellini parlando della propria opera, ma esprimendo una verità generale. Anche nel caso di “Fahrenheit 451”, come spesso accade, la realtà ha superato la finzione. Giustamente definito da Aldous Huxley «uno dei libri più visionari di sempre», dopo la prima lettura “Fahrenheit 451” dovrebbe essere riletto a intervalli regolari, perché ad ogni rilettura (ed è il contrassegno del capolavoro) è possibile cogliere nuovi risvolti, e poi perché rimane uno strumento fondamentale per circoscrivere la mutazione antropologica che sta cambiando – o probabilmente ha già cambiato – i nostri connotati. Realistico perché visionario oppure visionario in quanto realistico (e solo apparentemente iperrealistico), “Fahrenheit 451” ha profetizzato insieme a “Il mondo nuovo” la dittatura morbida di una felicità astratta, la negazione sistematica di ogni dubbio sulla realtà e il modo di avvicinarla, i subdoli totalitarismi della civiltà dei consumi e dei bisogni indotti, l’informazione ridotta a mera comunicazione, non da ultimo la cosiddetta era del “mollusco”, come viene definita in un passo particolarmente rivelatore: «Tenere tutti calmi e appagati, questo è il segreto».

Come tutti i capolavori letterari, anche “Fahrenheit 451” è un continente che può essere percorso ed esplorato in vari modi. Lo si può fare, ad esempio, leggendo anche i racconti che Bradbury ha scritto nel periodo della stesura del romanzo e nel loro insieme permettono di rivivere e approfondire talune atmosfere, grazie soprattutto alle due versioni preparatorie – peraltro bellissime e narrativamente compiute – intitolate “Molto dopo mezzanotte” (la prima stesura, redatta nel 1949 e pubblicata soltanto nel 2006) e “Il pompiere” (la seconda stesura, uscita su rivista nel 1951), che contengono molti passi poi espunti nella versione definitiva, parecchio “addolcita” per motivi editoriali. Le due versioni preparatorie sono contenute in un volume degli Oscar dal titolo “Era una gioia appiccare il fuoco” e compaiono in appendice alla nuova edizione in cofanetto.

La perdita della lentezza

Una lettura attenta di “Molto dopo mezzanotte” e “Il pompiere” permette inoltre di individuare in Bradbury lo scrittore che prima di ogni altro, nella seconda metà del secolo scorso, si è soffermato sull’inestimabile perdita della lentezza quale dimensione fondante e costitutiva dell’esistenza, più in generale sul rapporto alienato e alienante che l’essere umano intrattiene ormai coi luoghi che lo circondano, ridotti a semplice sfondo di una vita sempre più simile a una rappresentazione, quando invece dovrebbero essere lo scenario del pensiero e dell’immaginazione, l’orizzonte all’interno del quale abbia almeno una parvenza di senso la pretta fatalità biologica del nascere vivere e dover morire. Si capisce perché, in una vita del genere, i libri – quelli davvero degni di essere letti – non servano più a nulla. Come dice a un certo punto il capitano dei pompieri: «I pazzi che leggono diventano insoddisfatti. Cominciano a desiderare di vivere in modi diversi, il che non è mai possibile».

Molluschi o esseri umani? La domanda è retorica, la risposta – fatale e inequivocabile – è contenuta in un passo de “Il pompiere”: «La mente si nutre sempre meno. Impazienza. Ammazzare il tempo. Niente lavoro, solo tempo libero. Superstrade piene di gente che va da qualche parte, ovunque, in nessun posto». Non è più fantascienza o distopia, ovviamente non è libertà. E in ultima analisi, forse, non è neanche più una realtà “reale”, ma piuttosto una tragicommedia da dozzina con molti (troppi) tratti farseschi: l’era del “mollusco”, appunto.

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