«L’odio figlio della guerra: troppe vittime di serie B»

L’intervista a Giuseppe Culicchia, che nel suo “Uccidere un fascista” ripercorre la vicenda di Sergio Ramelli. «Era un capro espiatorio, una non-persona che era lecito eliminare per il semplice fatto di avere idee diverse»

Indro Montanelli, durante un’intervista, con il suo solito e feroce spirito provocatorio raccontò che se si era salvato dalle Brigate Rosse lo doveva a Mussolini. Il Duce, infatti, era solito ripetere “un uomo deve vivere e morire in piedi.” Montanelli, dopo la prima scarica di proiettili ricevuta dalle BR, resistette alla tentazione di accasciarsi al suolo proprio grazie a questa frase e si aggrappò così a un ferro dell’inferriata che costeggiava i Giardini Pubblici. In questo modo le pallottole gli presero solo le gambe.

Consiglio che salvò Montanelli, ma non Sergio Ramelli: un ragazzo di soli diciotto anni che venne aggredito da otto militanti di Avanguardia operaria nel marzo 1975. Sergio morì dopo 47 giorni di agonia. Decise di morire in piedi quando scelse di persistere nelle sue idee. Quando, nonostante le incessanti umiliazioni, continuò a portare avanti le sue credenze senza violenza. Sergio infatti non era un picchiatore fascista, non era uno squadrista e tantomeno un esaltato della politica. Era semplicemente un ragazzo che, durante un tema in classe, decise di condannare l’operato delle Brigate Rosse. Per approfondire la sua figura abbiamo incontrato Giuseppe Culicchia, tra i massimi scrittori italiani, che a Ramelli ha dedicato il libro “Uccidere un fascista” (Mondadori, pp.240, 19 euro).

Culicchia, chi era per lei Sergio Ramelli?

Uno studente di 18 anni dal carattere mite, che faceva volontariato in oratorio e amava giocare a pallone. Era anche interessato alla politica e si era iscritto al Fronte della Gioventù. Nelle indagini sulla sua morte, riaperte dal giudice Guido Salvini a dieci anni di distanza dai fatti, risultò che Sergio Ramelli non aveva mai commesso alcuna azione violenta: non risultava assolutamente nulla a suo carico.

Nel libro è affascinante notare le tante analogie tra Sergio Ramelli e Walter Alasia, membro delle Brigate Rosse. E qui lei sottolinea la differenza tra “nemico” e “avversario”. Ecco, Walter e Sergio forse, se i fossero conosciuti, si sarebbero scoperti come avversari, ma mai come nemici. Come si è arrivati a tanto odio?

Si tratta di un odio figlio della guerra civile che in Italia ha attraversato tutto il Novecento, con il biennio rosso (1919-1921), il periodo che andò dall’8 Settembre 1943 al 25 Aprile 1945, e infine gli anni Settanta, in cui i ventenni di allora erano figli e nipoti di chi si era combattuto in precedenza. Quell’odio si è sedimentato a fondo, ha messo radici, e cova sotto la cenere ancora oggi.

L’aspetto più atroce della morte di Ramelli consiste nel fatto che Sergio, da quando aveva scritto quel tema contro le Brigate Rosse, aveva siglato la sua condanna. Chi avrebbe dovuto difenderlo in nome di un ruolo super partes si rese testimone vorace della sua umiliazione. Si può dunque confermare ciò che scrisse Massimo Romano sul “Sabato”: Una decina di imputati per un assassinio che ha centinaia di colpevoli?

Credo che i colpevoli siano molti di più, nell’ordine delle migliaia anziché delle centinaia. Dopo la strage di piazza Fontana e quella di piazza della Loggia, uccidere un fascista non fu più un reato agli occhi di decine di migliaia di persone. Da questo punto di vista, Sergio Ramelli è il capro espiatorio, il bersaglio scelto indipendentemente dal fatto che abbia una qualche responsabilità in quelle stragi - cosa che ovviamente non era - ma per il semplice fatto di avere idee diverse rispetto a quelle della maggior parte dei suoi coetanei. Questo è bastato, agli occhi di chi lo aggredì provocandone la morte, a farne di lui una non-persona che era lecito eliminare.

Marco Costa, Giuseppe Ferrari Bravo, Luigi Montinari, Claudio Colosio, Claudio Scazza, Franco Castelli, Antonio Belpiede e Brunella Colombelli. Questi sono i nomi dei colpevoli dell’omicidio di Sergio Ramelli. Agirono in otto contro uno, usando un metodo squadrista. Tra l’omicidio Ramelli e la loro condanna, trascorrono ben 12 anni di impunità. Com’è stato possibile?

È stato possibile perché da un lato Sergio Ramelli era per l’appunto un “fascista”, dunque una vittima di serie B, e dall’altro perché chi lo ha ucciso apparteneva alla buona borghesia milanese. Tutti a Milano sapevano, ha detto il giudice Salvini, ma nessuno parlò. Un atteggiamento piuttosto mafioso, se ci si pensa.

Quando dissi a qualche conoscente che avevo intenzione di scrivere un articolo su Ramelli molti hanno risposto “E allora i fasci quanti ne hanno ammazzati?”. Come si può esaminare la storia portando rispetto alle vittime senza considerarle pedine sacrificabili di una partita a dama tra rossi e neri?

Bisognerebbe provare, di fronte ai morti, lo stesso sgomento di Cesare Pavese nelle pagine finali di “Casa in collina”. Bisognerebbe comprendere che è necessario piantarla di ridurre a nemico l’avversario. Bisognerebbe mettersi nei panni dell’altro. Manlio Milani, presidente dell’Associazione delle Vittime della Strage di Brescia, un uomo che ha visto la moglie dilaniata sotto i suoi occhi da quella bomba, un giorno ha detto: «Che responsabilità avevo io di quella bomba, se scendevo in piazza a gridare “Basco nero il tuo posto è al cimitero”?».

Il libro è costeggiato anche dal dolore di chi resta. E resta, molto spesso, umiliato dalla memoria calpestata e derisa. Come nel caso della madre di Sergio, Anita Ramelli che ha dovuto sopportare dopo la morte del figlio telefonate anonime da cui, dall’altra parte del capo, si sentiva suonare Bandiera Rossa. Forse non basterebbe pensare al dolore delle madri per cercare di arginare quell’ideologia che annienta la coscienza? È una sciocchezza?

No, non è una sciocchezza: il dolore di una madre per la morte di un figlio è, credo, il più terribile che si possa provare. Ma occorre, come dicevo prima, sapersi mettere nei panni dell’altro. E non è cosa da tutti, purtroppo.

Recentemente c’è stato a Milano un tributo a Sergio Ramelli. Da una parte c’era il corteo con il rito del “presente”, dall’altro qualcuno che da un balcone faceva suonare “Bella Ciao.” Arriverà un momento in cui si potrà ricordare senza confronto? Come?

Francamente ne dubito. Purtroppo in Italia per le ragioni di cui sopra non siamo in grado di avere una storia condivisa. Spero che un giorno avremo almeno il rispetto ciascuno per la storia dell’altro.

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