L’ultimo Bowie, omaggio al “duca bianco”

Novità “I can’t give everything away (2002-2016)” è il sesto di una serie di cofanetti sulla carriera del musicista Album, live e singoli per il testamento artistico di un uomo sempre alla ricerca di nuove frontiere da superare

Si crede che ogni artista amerebbe morire in scena, al momento culminante dello spettacolo, salutato dagli applausi del suo pubblico. Ma David Bowie ha fatto di più, e meglio, sempre un passo avanti, anche quando si tratta di quello estremo. Aveva abbandonato i palcoscenici definitivamente nel 2006, colpito da un’affezione cardiaca che lo aveva convinto – o, meglio, costretto – a rallentare l’attività frenetica che aveva caratterizzato tutta la sua vita professionale fino a quel momento. Un album dopo un altro, i film, i progetti collaterali, i tour, senza sosta.

Grande assente

Si era trasformato in un grande assente, novello Howard Hugues del rock che poteva rivaleggiare in assenza dai media con Lucio Battisti, il musicista italiano che tanto stimava. Così il ritorno con “The next day”, nel 2013, aveva colto tutti di sorpresa: in copertina non il suo volto, ma la stessa immagine iconica di “Heroes” negata dalla sovrapposizione di un quadrato bianco con il titolo.

L’ultimo atto è stato il frutto di una magistrale messa in scena. L’annuncio del ritorno con un disco che, formalmente, non ha titolo: solo una stella nera, “Blackstar”, si stagliava in campo bianco. Se ne parlava da mesi, la promozione affidata ai collaboratori, su tutti il produttore Tony Visconti, che collaborava con Bowie dai tempi di “Space oddity”, 1969. David, sempre onnipresente nella sua assenza, era malato e non voleva che si sapesse. Preparava il coup de théâtre definitivo. Il disco uscì il giorno del suo sessantanovesimo compleanno, l’8 gennaio, lo stesso di Elvis Presley, ma anche di Roy Batty, il replicante di “Blade runner” che sarebbe stato attivato proprio in questa data ed è impossibile non notare come Bowie si collochi esattamente a metà strada tra entrambi.

Nero su nero

Tutti hanno comprato “Blackstar”, un disco listato a lutto: perfino i testi erano stampati in nero su nero. Tutti ne avevano parlato. Ed ecco, sincronia che il performer avrebbe apprezzato, la notizia della morte. Quella vera. Perché nella sua vita artistica, era già spirato diverse volte e l’assassino era sempre lo stesso: David Bowie. Le vittime si chiamano Ziggy Stardust, Aladdin Sane, Tin White Duke e via, via, tutti i personaggi incarnati nel corso del tempo. In un caso il gioco fu così scoperto che nell’immagine scelta per “Hours”, un angelico Bowie raccoglie le spoglie esanimi del Bowie precedente, quello di “Earthling”, come una “pietà” michelangiolesca.

Il mutamento era la sua (in)costante stilistica. E prima di andarsene si era guardato un’ultima volta indietro per assicurare alla sua eredità artistica una sistemazione definitiva: una serie di sei cofanetti che riunisse (quasi) tutta la sua opera. L’ultimo, “I can’t give everything away”, va dal 2002 al fatale 2016: solo quattro album (oltre agli ultimi i precedenti “Heaten” e “Reality”) oltre a live, singoli e partecipazioni: le ultime opere del “duca bianco”, compresi gli inediti scritti per il musical “Lazarus”, il vero testamento artistico di un uomo sempre alla ricerca di nuove frontiere da superare.

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