Quel gelido soffio della disperazione: elzeviri di Landolfi

Libri Cinquanta scritti del grande scrittore e traduttore riproposti da Adelphi in “Un paniere di chiocciole”. Il vivere quotidiano tra bisogni, fantasmi e comicità

Gli scritti minori degli scrittori maggiori sono molto meglio degli scritti maggiori degli scrittori minori: la regola è piuttosto ferrea e non conosce praticamente eccezioni. Senza dubbio non fanno eccezione i cinquanta elzeviri che Tommaso Landolfi scrisse per il “Corriere della Sera”, raccolti per la prima volta in volume nel 1968 e recentemente riproposti da Adelphi in un libro con un titolo molto “alla Landolfi”, che ne riassume tutto il senso (non solo letterario, ma più latamente umano ed esistenziale) e merita una spiegazione: “Un paniere di chiocciole”.

Come un meteorite

Cos’è infatti il “paniere di chiocciole”? Lo spiega lo stesso Landolfi nell’omonimo elzeviro, dove si parla del giovane Riccardo, alter ego dell’autore, che avverte un «gran bisogno di tranquillità» e «se la deve ritagliare o scavare nelle ore che i suoi simili dedicano al sonno», riducendosi «a vivere di buio come una civetta». Accade però che una notte pace e silenzio vengano «rotti da un certo indecifrabile rumore di non ravvisabile natura e di imprecisabile provenienza». Dopo molte riflessioni, Riccardo giunge alla conclusione che il rumore assomiglia a «un paniere di chiocciole dolcemente scosso», ma la causa rimane ignota. Da dove proviene il rumore? Dal mondo esterno? Da certi insondabili abissi dell’anima?

La risposta di Riccardo alias Landolfi, che qui come non mai si rivela studioso e traduttore dei grandi russi (Gogol’ in particolare) e nelle ultime righe si trasforma nell’io-narrante, non lascia adito a dubbi: il “paniere di chiocciole” non può essere che la metafora di quella misera cosa che è la condizione umana, e il suo strano ma inconfondibile rumore è prodotto dal passare del tempo, dagli oltraggi dell’età, dagli urti del destino, dalle istanze che fondano l’esistenza ma la irrigidiscono e quelle che la liberano ma insieme la dissolvono. E’ il rumore stesso della vita, che per Riccardo si sostituisce all’identità, di modo che al telefono, quando l’interlocutore gli chiede chi ci sia dall’altra parte del filo, risponde semplicemente: «Un paniere di chiocciole».

Eterna tragicommedia

Landolfi, da parte sua, ne trae una morale che starebbe benissimo in chiusura di uno dei “Racconti di Pietroburgo” di Gogol’, ad esempio le “Memorie di un pazzo”: «Se posso essere sincero, io per me alla fin fine non ci vedo nulla di strano; forse ha ragione lui, forse noi tutti non siamo che panieri di chiocciole».

Si capisce insomma che gli elzeviri di Landolfi, anche se ovviamente non paragonabili per struttura e complessità alle grandi opere narrative, sono scritti tutt’altro che minori, soprattutto perché hanno il merito di condensare e riassumere nella misura breve le credenziali stilistiche di un’opera che ha attraversato il Novecento letterario italiano come un meteorite proveniente da chissà dove.

Ma non solo. In questi elzeviri scritti “al soldo”, che l’autore considerava come un fatale e ineludibile “gagne-pain” (l’io-narrante del meraviglioso “A tavolino”, seduto a un minuscolo scrittoio, si rende conto che lo spazio concessogli è insufficiente «a qualunque libera espansione dell’intelletto» e che la redazione di testi «eterni e feraci» gli è ormai preclusa), è possibile ravvisare il nucleo ferocemente satirico, ironico e autoironico dello stile di Landolfi: la scrittura per così dire calcolatamente antiquata e barocca, il linguaggio forbito e colto ma anche amaramente divertito, che nelle impensate volute sintattiche e nelle non meno impensate scelte lessicali sfocia spesso in una disillusione totale e in un pessimismo senza scampo, ma sempre nel segno della comicità e della “clownerie”.

Leggendo questi elzeviri, viene quindi naturale porsi le stesse domande suscitate dagli scritti da Gogol’, Dostoevskij e altri autori che Landolfi ha ottimamente tradotto e dai quali ha tratto la propria visione della realtà. Come circoscrivere la complessiva baracconata? E’ una commedia o una tragedia? Dove passa – se passa – il confine tra la presunta serietà della vita e il lato buffonesco dell’eterna tragicommedia umana? Ne deriva che questi scritti, a quasi sessant’anni dalla prima pubblicazione in volume, non hanno perso nulla quanto a impatto e suggestione.

Oltre al già ricordato “Un paniere di chiocciole” e al bellissimo “Il bacio”, l’elzeviro maggiormente rivelatore in questo senso è probabilmente “Elegia”, ambientato non casualmente in una sala da gioco (un ambiente che Landolfi conosceva fin troppo bene) e tutto modulato sul tema delle illusioni perdute, sulla vecchiaia che toglie senza dare nulla in cambio, sulla vita che trasforma e deforma.

Inferno abietto

E’ un inferno sordido e abietto, quello descritto da Landolfi, incredibilmente normale e quotidiano, dove si assiste alla completa sovrapposizione di tragedia e commedia, che da ultimo si mescolano nella farsa: «Gli uomini hanno la fronte scavata da turpi rughe, i loro capelli e i loro visi stessi sono imbigiti, nelle loro attitudini è un che di affranto, gli abiti appaiono troppo larghi per i loro corpi dimagrati; sotto il pesante trucco delle donne s’indovina la devastazione, le mani, i polsi, mostrano sgraziati tendini dove erano vellutate superfici ed hanno perso ogni loro gioiello (sacrificato alla nera deità del luogo), sull’attaccatura delle braccia s’è accumulato il sego; tutti hanno ancora talvolta una fiamma nello sguardo, ma desolata, e tutti sono già vecchi insomma».

Anche la sala da gioco popolata di lemuri e fantasmi, esattamente come il paniere di chiocciole e il suo rumore, restituisce la percezione dell’esistenza come una vertigine di vuoto e non senso, a mezza via tra realtà e surreale, assurdo e grottesco, con infiniti misteri che rimangono irrisolti perché forse non sono nemmeno misteri ma semplici apparenze, che rimandano ad altre apparenze e infine al nulla. E’ questa la verità di Landolfi, più nello specifico la verità di questi elzeviri: il «gelido soffio della disperazione» spazza via ogni residua speranza, la quotidianità trascolora e si perde in una «benigna trama di nulla» che mostra «l’inconsistenza di ciò che chiamiamo “io”», la fiducia nella ragione è ormai vana, perché la ragione stessa non ha più gli strumenti per rischiarare il «nero etere cosmico» e risvegliare i dormienti dall’«incubo del vivere quotidiano».

Come sopravvivere a un simile veleno? La proposta dello scettico, realista e apocalittico Landolfi è volutamente provocatoria, per certi versi perfino “omeopatica”, ma può darsi che contenga paradossalmente il giusto antidoto: «La gente, quando non è noi, è odiabile perché non è noi; quando è noi, è odiabile perché è noi».

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