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Mercoledì 28 Maggio 2025
«Quel messaggio di unità nel canto del Bel paese»
L’intervista a Massimo Castoldi, in libreria con il saggio “L’Italia s’è desta” dedicato al nostro inno nazionale. Sabato 31 maggio l’autore sarà ospite al Cinema di Bellano per trattare la figura di Goffredo Mameli
Gli italiani l’hanno negli orecchi da 178 anni, cantato durante i moti risorgimentali, suonato dalle bande di paese come dalle orchestre sinfoniche, ascoltato (spesso maltrattato) negli stadi prima delle partite della nazionale, insegnato a scuola e imparato perlopiù in maniera superficiale. Il “Canto nazionale”, che tutti ormai chiamano “Fratelli d’Italia”’ dal primo verso del componimento poetico che Goffredo Mameli abbozzò l’8 settembre 1847 durante un ritrovo a casa di Nicolò Moro, reggente del Consolato degli Stati Uniti a Genova, ha attraversato i secoli tra ammirazione e denigrazione, criticato da più parti e osannato da altre, bistrattato da illustri musicisti come Luciano Berio per la presunta banalità delle note di Michele Novaro, e decretato per legge inno nazionale italiano soltanto nel 2017, grazie all’interessamento del deputato del Pd Umberto D’Ottavio.
Ora Massimo Castoldi, già docente di filologia italiana all’università di Pavia, ha fatto chiarezza sulla genesi del “Canto degli italiani” e sulla figura di Goffredo Mameli, nato a Genova nel 1827 e morto il 6 luglio 1849 a seguito di una ferita rimediata nella difesa delle Repubblica Romana contro i borbonici a Villa Corsini, pare colpito da fuoco amico. Lo studioso, dopo un’attenta analisi dei documenti originali, ha pubblicato per Donzelli il saggio “L’Italia s’è desta – L’inno di Mameli: un canto di pace”, in cui spiega il perché la poesia di Mameli abbia trovato facile esca negli entusiasmi risorgimentali, ma una decisa avversione da parte della chiesa, della monarchia, ma anche da fascisti e comunisti per la sua chiara derivazione mazziniana e repubblicana.
Professor Castoldi, qual è dunque la funzione del suo libro e a chi si rivolge?
L’idea è nata dalla sorpresa dell’ostentazione di sicurezza di chi dice di conoscere l’inno, argomentandolo con tesi prive di fondamenti storici e filologici. Denigrazioni e celebrazioni si fondano su pregiudizi spesso sedimentati, così ho voluto spazzar via questa nebbia consultando le carte di Mameli e raccontandone la storia dai documenti. Il volume è piuttosto divulgativo, e si rivolge sia ai ragazzi delle scuole sia a persone colte che amano approfondire, ma idealmente a tutti gli italiani.
Quale è stato il messaggio rivoluzionario di Mameli?
Va detto che l’inno ha una grande forza evocativa, si canta con piacere, unisce, ma i più non ne capiscono il significato. È un messaggio di unità degli italiani che ai suoi tempi mancava, un richiamo alla Repubblica romana con la citazione di Scipione l’Africano e non di Augusto simbolo di una Roma imperiale, in piena linea con gli intendimenti mazziniani.
Mazzini però non era pienamente convinto dei versi di Mameli.
Tra l’altro li conobbe in ritardo, perché era esule a Londra. Se li fece mandare e li giudicò poco popolari e ancor meno guerreschi, invece erano portatori di un messaggio di fratellanza e solidarietà. Ciò che Mameli intese nella sua poesia fu di celebrare i popoli che lottavano per la propria unità, e non a caso nell’ultima strofa cita il popolo polacco, oppresso come il nostro dall’invasore. Mazzini più tardi chiese allo stesso Goffredo di comporne altri per farli musicare da Giuseppe Verdi, cosa che venne fatta, ma il nuovo canto non ebbe alcuna fortuna e fu disconosciuto anche dal compositore. Verdi, peraltro, citò il “Canto nazionale” e la “Marsigliese” nell’“Inno della Nazioni” che musicò nel 1862 su testo di Arrigo Boito, in occasione della Grande esposizione universale di Londra, intendendo la nazione italiana come popolo, e celebrando le insurrezioni risorgimentali e non gli inni ufficiali della monarchia sabauda e dell’impero di Napoleone III.
Veniamo agli avversatori dell’inno, da destra a sinistra.
I comunisti, capeggiati dal musicologo Massimo Mila, partigiano, avrebbero voluto come inno nazionale quello di Garibaldi, per il suo carattere internazionalista, mentre il fascismo celebrò l’“Inno a Roma”, che Puccini peraltro compose nel 1919, a causa del riferimento all’Orazio della Roma imperiale e non repubblicana. Poi ci sono stati i sostenitori del “Va’ pensiero” del “Nabucco”, tra cui Bettino Craxi, non pensando che questo è il canto di un popolo sconfitto che va intonato sommessamente e non può certo essere un inno nazionale, simbolo di forza e volontà. La Chiesa poi ha sempre storto il naso, memore di altri componimenti di Mameli in cui era presa di mira con toni piuttosto accesi. La Lega ha massacrato l’inno e Bossi lo insultò pubblicamente. Ma il “Canto nazionale” non contiene orgoglio nazionalista, vuole riscattare l’identità di un popolo e unirlo, è un inno che invita alla pace.
Da filologo come giudica il componimento di Goffredo Mameli?
Si capisce che è scritto da un giovane di vent’anni senza l’esperienza del grande poeta, ci sono espressioni ingenue, frutto di letture scolastiche, però l’autore è calato nella poesia risorgimentale, Berchet per esempio non è molto diverso, e del resto la poesia è utilizzata per uno scopo preciso. Mi sorprende sempre la grande forza che ha conservato nel tempo, capace di generare empatia, e da questo non è esente la musica di Michele Novaro, che la scrisse di getto, commosso dalle parole di Mameli. Del resto sono versi senari, che ben si prestano a quel tipo di musica.
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