Social media, magazzini della solitudine: così non possono nascere nuovi Leopardi

Attualità Tanti saggi analizzano i mezzi odierni, ma nessuno indaga le scelte dei giovani in relazione a questi. I momenti di noia hanno perso dimensione creativa e vengono sempre vissuti facendo paragoni con gli altri

Nessuna guerra, nessuna scoperta scientifica, nessuna pandemia ha avuto un impatto sulle nostre vite come nel caso dei social media. Perché niente come i social è riuscito a far sfogare il proprio virus nell’aspetto che più di tutti caratterizza la nostra specie: la relazione con l’altro.

Di libri che trattano le criticità delle tecnologie di connessione sono pieni gli scaffali delle biblioteche. Tra questi, due sono di recente pubblicazione: “Il lato oscuro dei social network – Come la rete ci controlla e ci manipola” di Serena Mazzini (Rizzoli) e “Social – L’industria delle relazioni” di Gabriella Taddeo (Einaudi). Si tratta di testi che, a prima vista, sembrerebbero trattare lo stesso argomento, ma con sfumature decisamente differenti.

Se da un lato il saggio di Mazzini non fa altro che fornire una cronologia dell’evoluzione social, evidenziandone le caratteristiche e invitando a un uso etico e consapevole del digitale, senza in realtà dire nulla di nuovo sul tema e con ampi incisi autoreferenziali, quello di Taddeo riesce invece ad analizzare con maggior precisione i tratti dei nuovi mezzi, che fanno leva sulle nostre emozioni, con una tesi di fondo ben chiara: quello che vogliamo è ormai tutto dedotto in maniera algoritmica, piuttosto che esplicitato attraverso un’azione e una presa di posizione.

Problemi

Come al solito, seppur testi come quelli citati siano importanti per mantenere il dibattito accesso sul tema, la sensazione è che tutto questo non sia abbastanza. Perché quello che manca in entrambi i saggi è il tentativo di sforzarsi a decifrare il comportamento dei giovani in relazione al loro modo di utilizzare i social.

Vanno bene le statistiche, i meccanismi, i riferimenti al passato, gli studi sul mezzo, gli esempi. Ma forse quel che conta davvero oggi, per evitare libri che si ripetono tutti a vicenda, è dare voce a una generazione che sta andando incontro a problemi mai affrontati prima. Perché non domandarsi, ad esempio, quanto i social hanno inciso sull’allontanare i giovani dalla religione. Oppure come hanno cambiato il mercato lavorativo, dato che un profilo con tanti follower oggi ha maggior valore rispetto a un buon curriculum. E ancora si potrebbe partire dai dati delle elezioni e cercare di capire se le tecnologie di connessione hanno un ruolo nel modo in cui gli adolescenti decidono di (non) votare alle urne.

Invece no. Analisi sociologiche di questo tipo sono un tabù, fatto salvo per quelle tese a ridicolizzare le nuove generazioni. Così facendo, toccherà sempre sorbirsi il parere di qualche genio travestito da intellettuale, di quelli che “dei giovani non è importante parlare, perché quel che contano sono le mode”. Ma non sono forse i giovani quella categoria più vulnerabile alle mode? Quella che deve ancora crearsi la vita in proprio e che ,come diceva Jules De Gaultier parlando di “bovarismo”, è maggiormente esposta ai condizionamenti della società? I social esistono da vent’anni, non da duecento anni. E le conseguenze problematiche a cui andranno incontro quelli che oggi sono i nativi digitali, quando saranno adulti, non sono ancora decifrabili. Ecco dove sta la sfida e perché è importante parlare di giovani. Perché questa è la prima generazione a dover affrontare angosce che non hanno termini di paragone con il passato. Una questione su tutte: la gestione dei momenti di noia.

Paradosso

C’è uno strano paradosso che caratterizza la nostra società. Aumentano le tecnologie di connessione, abbiamo la possibilità di parlare con persone che si trovano dall’altra parte del mondo, eppure mai come in questa epoca si registrano casi di sofferenza legati alla solitudine.

Che non sia troppo interessante analizzare la solitudine in quanto tale è un dato di fatto visto che, come già sosteneva Fromm, l’individuo “se in quanto animale teme soprattutto di morire, in quanto uomo teme soprattutto di restare solo”. Quel che è davvero importante approfondire sono i modi in cui la solitudine oggi viene amministrata. Gli appigli per rimanere meno soli nei secoli sono sempre stati gli stessi: la famiglia, il partner, gli amici, nei casi più estremi la religione. Oggi a questo elenco si aggiunge lo smartphone, ma con una differenza sostanziale. Se fino a vent’anni fa la solitudine poteva ancora essere vista come un’opportunità per guardare dentro sé stessi, per favorire dinamiche introspettive, oltre ad agevolare una dimensione creativa (senza la solitudine, dimentichiamoci di leggere sui libri di letteratura nomi come Leopardi, Pascoli o Sbarbaro), oggi è diventata una condanna, perché aprendo i social osserviamo sempre persone felici, in vacanza, con la fidanzata o in ristoranti di lusso. E così non viviamo più quel momento in relazione al nostro Io, ma in parallelo agli altri, castigandoci per essere rimasti indietro, per non essere mai al passo. Tutti sono allegri, io sono l’unico a soffrire. Tutti partecipano alla festa, io sono a casa a scorrere la rubrica cercando qualcuno a cui scrivere, che abbia voglia di ascoltarmi.

È sempre divertente e allo stesso tempo grottesco ascoltare le descrizioni che molti adulti danno dei giovani: svogliati, disattenti, perennemente confusi. Cinquantenni brizzolati che escono con i figli perché non hanno amici, di quelli che iniziano le frasi con “ascolta un pirla” (spoiler: quasi sempre sono dei pirla) e si divertono a fare confronti generazionali con la presunzione di chi pensa di sapere tutto del mondo in virtù di una giovinezza trascorsa di cui provano grande nostalgia.

La verità è che notare le differenze tra un’epoca e l’altra è piuttosto facile, persino banale e noioso. Molto più complesso è invece domandarsi il perché di queste differenze. Quando un adulto parla o scrive di giovani, incappa sempre nello stesso errore: quello di raccontare quello che vede. Parte solo da quello che può misurare e stila sentenze che nulla hanno a che fare con ciò che i giovani realmente pensano. Certo, non è detto che basta essere giovani per capire il comportamento di altri giovani. Ci sono individui in là con l’età che non sono ancora riusciti a capire loro stessi, figuriamoci gli altri.

Una cosa però è certa: continuare a produrre saggi che trattano le criticità dei social media è inutile se poi non siamo in grado di decifrare le scelte di coloro che, dalla nascita, sono stati influenzati da questi.

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