Vecchioni: «La vita, un bel viaggio tra silenzio e tuono»

Stasera alle 21.30 in concerto al Lake Sound Park a Villa Erba di Cernobbio

Roberto Vecchioni ricorda, con un pizzico di rammarico, di essere stato «poche volte a Como» - «quella al Teatro Sociale [nel 2014, tuttavia vi si era già esibito nel 1999] e quell’altra per presentare il libro» [nel 2009 a Parolario con “Scacco a Dio”]. Ma è felice dell’appuntamento che lo attende stasera «in un luogo splendido come Cernobbio», dove alle 21.30 salirà sul palco del festival Lake Sound Park all’ex Galoppatoio di Villa Erba (info e biglietti qui: https://lakesoundpark.it).

Perché ha scelto per il tour il titolo del suo ultimo romanzo, che poi è un’autocitazione da “Chiamami ancora amore: “Tra il silenzio e il tuono”?

Sarà un concerto in cui parlerò molto. “Il silenzio e il tuono” è un’espressione che racchiude la dualità presente in tutte le mie canzoni - si pensi a “Velasquez” - e anche nel romanzo, in cui il ragazzo e il nonno che si scrivono le lettere sono poi sempre io. È una metafora della vita e del nostro modo di essere. Attraverso la parola l’anima può esprimere tutti gli opposti: pro e contro, bene e male, comprensione e incomprensione. La parola significa una cosa, ma può contenere anche il suo contrario, perché siamo, per l’appunto, “silenzio e tuono”.

Cosa la spinse a diventare cantautore da giovane, approdando ai libri solo molto più tardi?

Mi sono proposto io subito come cantautore. Ma all’inizio, la mia carriera è stata una serie di lavori di secondo piano. Scrivevo pezzi per altri. Poi qualcuno nel ’69 ha sentito un paio di canzoni mie e ho fatto un disco [il primo album fu “Parabola”, 1971], di difficile ascolto, quasi inaccettabile, ma ci ho creduto ancora di più. Poi, conoscendo al Premio Tenco Guccini, Branduardi ho pensato: sono sulla strada giusta. In letteratura è stato decisivo Ernesto Franco dell’Einaudi, che leggendo delle cose mie disse: «Bisogna fare un libro». Il primo uscì nel ’95, da allora ne ho pubblicati altri dieci con la casa editrice torinese, mentre l’ultimo - “L’orso bianco era nero. Storia e leggenda della parola” - l’ho dato a Piemme, perché ci teneva.

Da “Stranamore” (1978) a “Chiamami ancora amore” (2011), lei, a differenza di molti intellettuali, non ha mai evitato di usare la parola “amore” nei suoi testi. Come mai?

Una volta l’amore era considerato un sentimentalismo. Nel ’68 quelli che parlavano d’amore non erano accettati, perché venivano ritenuti borghesi. Mi ricordo che a quei tempi dicevano anche a me «tu sei troppo sentimentalista». Per me, invece, era sentimento, che è una cosa molto diversa. Il sentimentalismo è retorica del sentimento, mentre il sentimento è la purezza delle cose che ti vengono dall’anima. L’amore come parola pura è l’unica che conta da sempre. Ha in sé tutto: non solo fraternità, mutuo aiuto, o far l’amore con una donna, ma contiene anche il dolore, la sconfitta, il tentativo di rivincita. Insomma, include anche il suo contrario. Come “L’orso bianco era nero”.

Tra i cantautori lei è quello che ha evitato meno Sanremo, esordendovi nel ’73 con “L’uomo che si gioca il cielo a dadi” e vincendolo nel 2011 con “Chiamami ancora amore”. Non ha avuto paura di affrontare il palco nazional popolar per eccellenza?

Che non abbia avuto paura non è vero, me la sono fatta sotto. Non sarei tornato a Sanremo nel 2011 - dopo l’esperienza giovanile - se non avessi avuto quella canzone. Era il tempo in cui Berlusconi stava rovinando tutto, si assisteva ai primi sbarchi di extracomunitari, si andava a combattere in Medio Oriente... L’amore come palliativo di tutto questo, è l’idea semplicissima sottesa alla canzone. Poi, quando mi è venuta fuori la melodia, ho pensato: «Merita di più di andare solo nelle radio. Questa in gara può essere tosta». Ero convinto che potesse toccare veramente le persone e così è stato. Che abbia vinto va bene. Ne ero felice. Nel 2006 avevo comunque già assaporato la vittoria nel duetto con i Nomadi [primo posto tra i gruppi, secondo assoluto].

Spesso i suoi colleghi e alcuni critici parlano di “morte della musica” a proposito dei giovani che si danno al rap e abusano dell’autotune. Lei che a Sanremo 2024 ha cantato “Sogna ragazzo sogna” con Alfa, cosa pensa delle canzoni proposte dalle nuove generazioni?

Non c’è melodia, questo è certo. Puccini è finito. Noi abbiamo preso un po’ tutti da Puccini, oltre che dai francesi e dagli americani. La melodia non ha più il senso di una volta, quando prendeva l’anima. Oggi è sostituita dal ritmo, dalla forza calante e crescente di un’espressione. Le parole vanno dietro. Non tutti i rapper e non tutti i trapper dicono le stesse cose, ma le dicono consone al tempo, che è molto diverso dagli anni Settanta. Oggi come oggi non si accetta un mondo che si sta suicidando. I giovani hanno questa forza, anche notevole, di “mandare affanculo” tutti. Forse in modo un po’ troppo violento. Diciamo che a volte esagerano. Mi sembra, invece, che siano un po’ scarsi nelle tematiche, che sono sostanzialmente due: l’orrore del mondo e l’amore. Quest’ultimo o “lo faccio quando voglio con chi voglio” oppure è disperazione. Sono tematiche già trattate dai cantautori di una volta, alla Paoli, ma con un altro linguaggio. In genere, i ragazzi sono un po’ insicuri di fronte all’amore . Davanti alle lotte giustissime delle donne, molti giovani si sentono spiazzati. In quanto all’orrore, nel mondo abbonda ma la colpa non è loro, bensì di una società andata verso l’accettazione dei tre famosi verbi: comprare, vendere e consumare. Quelli che ai miei tempi erano combattuti con massicce dosi di cultura. Sono tre parole che portano all’“io sono meglio di te” e alle guerre che si sperava di non vedere più.

Lei ai tempi del ministro Luigi Berlinguer ha insegnato la canzone d’autore nelle scuole e anche in quell’occasione era venuto a Como -era il mese di marzo del 2000 - per incontrare gli studenti del liceo Volta allo Spazio Gloria. Il conferimento del Nobel a Bob Dylan ha sancito una volta per tutte che la canzone d’autore è letteratura?

La grande cosa positiva del Nobel a Dylan è il salto che il nostro lavoro ha compiuto agli occhi del mondo: da canzone a poesia. Lui è il totem di tutti gli altri cantautori. Non so chi meritasse di più il premio, penso che anche Fabrizio De André e Leonard Cohen fossero da Nobel, ma va benissimo il riconoscimento a Dylan per fa capire che la canzone d’autore può essere altissima. Per due anni sono stato in giro ad insegnarla nelle scuole di tutta Italia, poi nelle università di Torino, Teramo e a La Sapienza di Roma. Da tre anni a questa parte, invece, ho scelto di concentrarmi sul classicismo e allo Iulm di Milano insegno la contemporaneità dell’antico. Nei classici c’è tanto di cui fare tesoro per il futuro.

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