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Analisi I profili di Silvia Caratti, Azzurra D’Agostino e Isabella Leardini: tre grandi riferimenti di lirismo. Le loro opere con tratti autonomi e tematiche comuni
Nel panorama della poesia italiana, Silvia Caratti, Azzurra D’Agostino e Isabella Leardini rappresentano, oggi, un punto di riferimento per chi volesse conoscere tre voci femminili nate negli anni Settanta. Comprese nelle principali antologie degli ultimi decenni (da Mondadori a Einaudi ai Quaderni di Marcos), e con una già nutrita bibliografia alle spalle, le tre autrici, hanno pubblicato, nel 2025, le loro ultime opere, raggiungendo il vertice dei relativi percorsi poetici con una voce che, seppur contraddistinta da tratti autonomi e precipui, manifesta, anche, possibili tendenze e tematiche comuni.
“Instabilità dei microsatelliti” (Guanda) di Silvia Caratti contiene, già nel titolo, un aspetto fondamentale della sua poetica, ovvero il linguaggio scientifico, come strumento per accedere alla conoscenza ed esprimere una visione esistenziale. L’autrice adotta una lingua chiara, asciutta, essenziale condensando, nella misura breve, un contenuto incisivo.
La scienza, la fisica e, soprattutto, il corpo, sono, per lei, dei mezzi per riflettere sulla nostra comune condizione: “Solo questo sappiamo: / che ovunque è la matematica / come una parola o un progetto / che non capiamo”. E, ancora: “Quattro corvi divorano / un passero morto al bordo del prato”, come a ricordare le imprescindibili leggi della natura, o della fisica (“I pianeti mortali e gassosi / butterati spaccati e corrosi / che ruotano attorno / bruciati dal sole // e la luna una pietra”), cui tutti apparteniamo.
Siamo, dunque, di fronte a un rapporto concretissimo con la materia e la realtà circostante anche se, l’approccio scientifico, non sembra produrre grandi certezze: “Dell’universo [...] una sola cosa sappiamo: / che non sappiamo niente”. Una visione che comprende temi più ampi, come l’amore, dominato da una fisicità continua (si pensi al lessico, “lingua”, “sterno”, “sperma”, o ai verbi, “sventrarti”, “spaccare”), come se le relazioni fossero dominate dalle medesime leggi della fisica che portano i corpi celesti a scontrarsi. Così la morte, consustanziale all’amore, parte del medesimo “tempo” e di quella continua indagine cosmologica che, pur passando dai dettagli della quotidianità, non cessa mai di accompagnare la riflessione dell’autrice.
Amore e morte, quindi, fisica e scienza, per una scrittura asciutta che, nel farsi distillato, diviene lirica. E che, pur sfiorandolo, non cede mai al nichilismo, ma sonda, imperscrutabile, il mistero profondo nel quale noi tutti siamo immersi, dialogando con Dio (“Sono il mio creatore / e il tuo distruttore, mio Dio. // Perché mi hai abbandonato?”), manifestando gratitudine (“per tutte le volte che mi eri vicina”), rimandando alla gioia “come un filo che non si spezza / e non molla e non cede e non ci fa morire”.
Sul crinale vita e morte, affiorano anche le “Maniere nere” (Lo Specchio Mondadori) di Isabella Leardini, evocando “una tecnica di incisione in cui l’immagine emerge da un opaco fondo scuro, come luce che filtra attraverso il buio”. Siamo, infatti, di fronte a una poesia che riesce a dar voce ai “non vissuti”, ai “non più vivi”, nonché a una sepolta creaturalità acquorea, vegetale e animale che, attraverso i versi dell’autrice, acquisisce corpo e sostanza.
L’albero, simbolo universale della vita, “frutto di interminabile sete / germogliare ostinato dell’amore”, genera, in questo libro, i “morti bambini”, “i perduti vivi”, “presenza buia ed educata” che trova come correlativo oggettivo (“Avrò mani di coralli e di piume / che crescano oltre le arterie”) le conchiglie (“forma esanimata del restare” di matrice montaliana), le alghe (“vita non afferrata”), i subacquei (“i fiori più strani e più lontani”). O, ancora, “Le ragazze morte per acqua” (Virginia Woolf), “per aria” (Mariagloria Sears), “per terra” (Antonia Pozzi), “per fuoco” (Sylvia Plath), ricordandoci come “Le piccole ragazze che ridono sui ponti / prima di cadere / germogliano d’estate lungo le ringhiere”. L’acqua, in particolare, appare come luogo in cui la vita prende forma (“A lungo siamo stati nel battito / di un’acqua che non era vera onda”), ma al contempo “primo inevitabile elemento / che poteva anche farsi mortale”, riaffermando, “quanto sia in fondo / così facile e difficile morire”.
Eppure, scrive l’autrice, la felicità “È una cosa che fa il nido / ti dimentichi di averla sotto il tetto”, ed esiste una rosa “distesa al centro di una scatolina / incastonata viva come prova / che l’amore contro ogni contingenza / dura splendido”, in un canto lirico, visionario, a tratti allucinato, dove ogni cosa è immagine, metafora.
Senza scivolare nel biografico, o nell’autofiction, Leardini riserva, infatti, alla trasfigurazione letteraria le proprie ferite, muovendosi su un piano continuamente allusivo, che il lettore può fare suo. L’eco del mondo, privato e collettivo, accompagna, infine, “Cosmic Latte” (Marcos y Marcos) di Azzurra D’Agostino che, oltre a essere poetessa, è autrice di libri per bambini e ragazzi. Una dimensione narrativa che si riverbera nella moltitudine di personaggi (umani e non), ricordi e situazioni messe in scena nella raccolta.
Elemento centrale di questo libro è, senza dubbio, il rapporto con la realtà circostante, a volte con componimenti di netto segno civile, come “Saga operaia” (“Vorrei scrivere una poesia / che fosse capace di dire come ci si sente / dopo essere stati a una presidio davanti a una fabbrica” [...] “La cronaca spazzerà via / anche questa notizia con altre notizie? / Resteremo fuori dalla storia / anche noi, coi nostri quaranta, / cinquant’anni di vita addosso?”), altre con testi che indagano l’originarietà, la memoria, nonché l’infinitesimale presenza umana nell’universo (“noi che siamo vivi / come una traccia d’uccellino nella neve”, o come la donna che “va verso / il bianco, il bianco, il bianco / colore invisibile dell’universo”). Ogni elemento, in questo libro, sembra smaterializzarsi virando in un’inevitabile e sommerso accordo tra umano, vegetale e animale (“tutto il fondale segreto / resta, sta, è fermo, mi respira / mia radice, mio profondo / incantamento che mi scioglie / in melma e tutto accoglie”), adottando persino il punto di vista dell’anguilla, del castoro, dell’ariete, o del rospo, attori di un paesaggio che diviene mondo nel quale l’umano si rivela elemento residuale.
I toni, lievemente lirici, si affidano a un linguaggio molto chiaro, talvolta comunicativo, in cui affiora, a tratti, l’uso dell’anafora (“Mia antenata”, “Nostra Signora”, “Tutta la vita”), o il dialetto, vero “tesoro” e “Stele di Rosetta” che, nel brulicante “brusio”, riesce, ancora, a farsi proverbiale: “Accontentati bene, mi diceva / avrò avuto sette, otto anni / sgranavo i piselli col nonno davanti a casa / volevo il giornalino nuovo, un altro gioco / Accontentati, o la vita diventa una pasta senza sugo”.
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