Cronaca di un addio: «Ti piaceva ripulire la via dai fiocchi. Vai tranquillo: qui non nevica più»

Le storie di chi va L’Associazione Palma ha raccolto i racconti dei parenti di chi se n’è andato. Emerge l’ultimo tratto di strada insieme tra pagine da sfogliare e musica da ascoltare insieme

«Sei scivolato sulla tastiera dell’organo senza emettere un lamento. Ti ho raggiunto in ospedale. Mi pareva non ci fossero speranze. Non vi erano, infatti, speranze. Non ti sei più svegliato».

Un copione che si ripete, purtroppo più spesso di quanto possiamo immaginare, e succede sempre così, all’improvviso, perché quando una vita si spezza non fa rumore e non lancia segnali di allarme preventivi, il rumore arriva dopo, ed è quello delle sirene dell’ambulanza, è il frastuono nella testa di chi quella vita l’ha amata e la ama e piange e si chiede “perché?”.

“È successo a te”

Anna Girola ha partecipato al premio letterario dell’associazione Antonio e Luigi Palma di Como con il racconto “È successo a te” che riproponiamo qui in alcune sue parti. E in quel “te” sono racchiusi nonni, genitori, compagni, figli. La cronaca toccante, sincera e a tratti disperata di chi si trova a dover gestire qualcosa di così grande che è difficile anche solo da concepire.

«Una rianimazione ostinata e azzardata aveva rimesso in movimento il cuore in un corpo ormai morto. Le aberrazioni di una medicina disumana, avrebbe commentato qualcuno. Fra un po’ saranno tre anni. Di silenzio. Solo, a volte, il gorgoglio del catarro, l’allarme del respiratore. Disteso nel letto o in sedia rotelle, puntellato dai cuscini».

Dopo lo sgomento, la preoccupazione, la rabbia, tanta legittima rabbia, i consulti, le speranze aggrappate a un parere medico che sembra accendere una piccola luce, non resta che attendere, attendere che quella persona così speciale, decida di lasciarsi andare. «Sei morto, inutile illudersi. Diciamo: dorme. Ma non è vero, tu anche dormendo eri in perenne agitazione, ti allargavi nello spazio del grande letto ottocentesco; io avevo imparato a rattrappirmi sulla sponda verso cui a poco a poco mi spingevi. Brontolavi e ti lagnavi nel sonno proprio come facevi tutto il giorno, per cose che non dipendevano da noi e che quindi non potevamo cambiare. Inutili lagne, pensavo. Ma se non ti lagnavi - dicevi - ti pareva esser morto. Ora non ti lamenti più».

Lasciare andare

Una vita appesa a un corpo, un contenitore ormai privo forse di qualsiasi sentimento. «Ancora, dopo tanto tempo, mi chiedono di te; con imbarazzo. Se mi riconosci, se apri gli occhi, se mi stringi la mano. Io dico che no, non mi riconosci, non apri gli occhi, non stringi la mia mano. Se “sei sempre tu”. Sì, sei tu; almeno sembri il solito tu. Ci chiediamo dove tu sia. Se hai dei pensieri; mi illudo tu possa pensarmi».

Lasciare andare è facilissimo, in teoria, ma nella pratica è un’emozione contrastante che oscilla tra l’amore di una mano che non si vorrebbe lasciare mai e la dignità umana che si vorrebbe restituire a quel viso che non sorride più. Momenti dolorosi che possono dare l’opportunità, agli altri, anche se è difficile parlare di “opportunità” in questi casi, di chiedere scusa, di perdonare, di esprimere l’affetto che prima, nella vita così preziosa ma scontata di tutti i giorni, si aveva timore di manifestare. Accanto ai letti compaiono così libri che vengono letti ad alta voce, cuffie da dove esce la “sua” musica preferita, colorati disegni dipinti da figli e nipotini. La vita entra in quelle stanze per dire: puoi andare, andrà tutto bene, ti vogliamo bene.

«Confessavi che ti sarebbe piaciuto fare lo stradino: strappare le erbacce e tener puliti i margini delle strade. Spalare la neve. Scendevi sempre in strada per liberare l’ingresso di casa dalla neve e tracciare un sottile sentiero sicuro. La pala è ancora in ripostiglio. Puoi andartene tranquillo: da tempo, ormai, non nevica in città».

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