Il tessuto strappato. Quando la giustizia sa ricucire i traumi

Focus Il docente universitario in Giustizia riparativa: «Riconciliare reo e vittima, così si ripara il danno»

«C’è parecchio da fare e su più fronti sul tema della giustizia riparativa. È necessario lavorare su tre binari: la sensibilizzazione, per creare una cultura riparativa, la ricerca accademica, teorica e pratica, e infine la normativa. Si tratta di tre registri che devono convergere nell’ottica di promuovere una maggiore armonia territoriale che nasca da esigenze di giustizia ed equità».

La spinta europea

Giovanni Lodigiani è docente di Giustizia riparativa e Mediazione penale del Dipartimento di Diritto Economia e Culture dell’Università dell’Insubria. A luglio è stato nominato tra gli esperti della Conferenza nazionale per la Giustizia riparativa con funzioni di consulenza tecnico-scientifica. La nomina è del Ministro della Giustizia in concerto con il Ministro dell’Università e della ricerca. La Conferenza nazionale per la giustizia riparativa supporta il Ministro della Giustizia nel coordinamento dei servizi per la giustizia riparativa a livello nazionale. Tra i suoi compiti vi sono la programmazione delle risorse, la proposta dei livelli essenziali delle prestazioni e il monitoraggio dei servizi erogati in questo ambito.

«Nel 2012 l’Unione Europea con direttiva 29 , riguardante il riconoscimento delle vittime di reato come soggetti del procedimento giuridico, ha dato 10 anni di tempo affinché gli stati membri recepissero nel loro ordinamento giuridico i principi della giustizia riparativa. L’Italia, solo poco prima della scadenza del decimo anno, con decreto legislativo numero 250 dell’ottobre 2022, ha accolto la direttiva europea, confluita nella Riforma Cartabia. Il ritardo è innegabile, soprattutto perché è mancato un lavoro importante nel creare un clima culturale in grado di accogliere questo cambiamento di prospettiva in cui la giustizia riparativa non deve essere vista come un’alternativa ai precetti e alla sanzione, ma come complementare, in grado di attivare un percorso di consapevolezza in cui reo, vittima e comunità trovino, attraverso ad esempio la mediazione, il dialogo e arrivino alla riparazione del danno».

Un nuovo ordine

La riforma ha introdotto aspetti importanti, ha dato forma alla materia e messo ordine. «Sono stati fissati i requisiti perché una struttura possa essere definita e operare come centro di giustizia riparativa ed è stato previsto una sorta di albo per mediatori specializzati in questa materia. C’è da dire che in Italia esistevano già delle belle avvisaglie nel campo della giustizia riparativa ad esempio nella legislazione del penale minorile e con i progetti di messa alla prova. Adesso come Conferenza Ministeriale stiamo lavorando alacremente per presentare al più presto i livelli minimi di prestazione».

Lodigiani lo sottolinea con forza: «La giustizia riparativa opera con l’obiettivo di ricreare il tessuto sociale, le relazioni, riconciliare il reo con la vittima, riparare il danno causato. Ciò a monte prevede una piena consapevolezza da parte di chi ha commesso il reato del dolore che è stato in grado di procurare e il profondo rispetto di questo dolore. Nello stesso tempo però cambia la prospettiva sulla giustizia, in quanto il dolore non può essere un criterio di giustizia, che poi si traduce in una giustizia fai da te, in una giustizia vendicativa. Il rispetto del dolore invece diviene la chiave, il campo comune, in cui reo, vittima e comunità possono intraprendere un percorso di ricostruzione e in cui ogni attore è soggetto di ascolto».

Anche il territorio è quindi coinvolto nello sviluppo della cultura riparativa: «Nei nostri territori ci sono già dei centri di giustizia riparativa, ma sono dislocati a macchia di leopardo. È auspicabile che altre realtà, che sono già sensibili al tema, presentino la domanda per essere riconosciuti come centri. E poi è necessario che si parta dalle scuole a lavorare su una nuova dinamica di giustizia. Se un compagno di scuola ruba un astuccio a un altro bambino, mettersi in cerchio, capire che esigenze e in che contesto si è generato quel gesto è la modalità corr etta per affrontare il conflitto, senza ricorrere a comportamenti accusatori e punitivi. Insegnare questa dinamica, significa darle l’opportunità di essere acquisita e messa in pratica in altri contesti della vita adulta. La nostra società - conclude - per essere migliore ha bisogno di riappacificarsi».

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