«In Palestina la tragedia del mio popolo»

Protagonisti Sara e la sua famiglia allargata: «Fare attivismo per Gaza? Una scelta pericolosa»

Fare attivismo sul tema della violazione dei diritti umani nella striscia di Gaza da parte di Israele è una scelta che ha delle concrete e spesso pesanti conseguenze. Non solo per chi è sul posto, ma anche per coloro che a distanza portano avanti questa attività di informazione e mobilitazione e che un giorno vorranno tornare in Palestina.

Ecco perché Sara (nome di fantasia) ha deciso di raccontare, da un piccolo paese del Comasco, quello che sta accadendo alla sua famiglia allargata, mantenendo però l’anonimato. «Chi denuncia, boicotta o promuove campagne contro il comportamento del Governo di Israele è il primo della lista, in un futuro prossimo, che si vedrà negato l’ingresso nei territori palestinesi, ingresso gestito dagli israeliani. Spesso queste persone sono sottoposte a controlli rigidi, segnalate come non gradite, ai valichi le vengono ritirati i cellulari e verificati i profili social di frequente il loro visto viene rifiutato. La famiglia di mio marito vive in un villaggio dei Territori Occupati di Palestina. Per noi è opportuno mantenere un profilo basso, seppur continuando a fare attivismo, perché c’è il rischio reale di non poter più incontrare i nostri cari».L’occupazione della Cisgiordania da parte dei coloni israeliani, anche dopo gli accordi di Oslo del 1993,non si è mai realmente conclusa. Oggi ci sono 145 colonie appunto nella West Bank, quell’area della Palestina costeggiata dal fiume Giordano. «La Palestina non è mai diventata uno Stato, è un’Autorità. C’è un vuoto di diritto dove Israele continua a svolgere azioni di sicurezza, polizia e amministrazione.La Palestina è un territorio molto piccolo e del tutto interconnesso anche con lo Stato di Israele, dove il concetto di distanza è relativo. Dalla Cisgiordania Gaza è vicina, come vicine sono le città israeliane; dalla casa dei miei suoceri le si vedono affacciandosi alle finestre».

Se in Cisgiordania la tensione è alta,per il momento però non è esplosa. A Gaza invece è l’orrore,un’ecatombe.

«L’impatto di quel che sta succedendo a Gaza tante famiglie, come quella di mio marito, che vivono nella West Bank, lo stanno vivendo su più livelli legati tra loro. Sul piano economico dopo il 7 ottobre molti palestinesi, tra cui tanti dei miei cognati, che lavoravano in Israele, recandosi ogni giorno oltre confine, hanno perso il lavoro e non hanno più uno stipendio. Sono aumentate la povertà, la fame e di conseguenza sono aumentati i furti. Sul piano della sicurezza, nei territori la popolazione ha sempre più paura, rimane nelle case, soprattutto dopo un’escalation di incidenti, sparatorie, violenze».A Gaza ci si alza di livello: «La gente non sa più dove rifugiarsi, nemmeno il sud è sicuro. Non c’è famiglia che non pianga i suoi morti. Lì, abbiamo amici e conoscenti che riusciamo a sentire ad intermittenza e tutti hanno avuto perdite di familiari e case bombardate, hanno vissuto eventi estremi di guerra. E poi c’è il rischio imminente di una carestia, dopo che il Governo di Israele ha evacuato con forza la gente, privata di diritti essenziali come il cibo el’acqua”.

I suoceri di Sara dalla Cisgiordania non vogliono andarsene. «Anche se ci sono “finestre” per poterci raggiungere in Italia ci hanno chiaramente detto che non lasceranno gli altri figli e i nipoti, non lasceranno la loro terra».Immaginare un orizzonte è troppo complesso. Fa paura l’allargarsi del conflitto ad altri stati del Medioriente, il Libano in primis».

«La maggior parte della popolazione palestinese condanna i fatti del 7 ottobre, vorrebbe solo vivere in pace, ma spesso nella narrazione di quello che sta accadendo i palestinesi sono numeri, non hanno volto e voce, Hamas ha parlato per loro e loro ne pagano le conseguenze, e tutto questo fa male».

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