«In quelle docce la nostra nudità vestita d’odio»

Testimoni L’Olocausto ha anche il volto di tante donne, come quello della autrice de “Il fumo di Birkenau”

L’Olocausto ha anche il volto di una donna, di tante donne, spogliate della dignità, della loro femminilità, dell’identità di essere donna, sottoposte a fatiche massacranti, a violenze, umiliazioni quotidiane. Erano madri separate dai figli, per sempre, in un momento, figlie, mogli, sorelle, donne con un nome e un cognome, una storia e una vita a cui andare incontro. Nei campi entravano deportate politiche, ebree, zingare. Ne venivano selezionate le più giovani.

Guardare la Shoah da una prospettiva di genere mette in luce aspetti che la storia spesso ha lasciato ai margini del racconto. Al liceo Giovio di Como, la professoressa di storia Elisabetta Lombi, terrà una conferenza che parlerà proprio di deportazione femminile.

«Una volta vi ho detto che il disprezzo, l’indifferenza, la violenza sono i vostri nemici, le forze malvagie che possono rovinarvi la vita. Lo ripeto. Ma queste sono le forze negative. Entusiasmo e tenacia sono invece le forze benefiche e io mi auguro che vi accompagnino man mano che andate avanti». Lo scriveva Liana Millu, superstite dell’Olocausto, in una lettera aperta, indirizzata agli studenti di un liceo di Pistoia. Nel libro “’Il fumo di Birkenau” Liana Millu si pone dalla parte dell’ascoltatrice, quasi della reporter, e tratteggia sei ritratti di donne che ha conosciuto nel campo di concentramento. Lascia spazio alla loro di emozione e ricostruisce i fatti con uno sguardo esterno che mette distanza, ma allo stesso tempo è profondamente empatico, perché il trauma di queste donne è lo stesso che Liana ha vissuto sulla propria pelle e non potrà mai dimenticare.

«”Il fumo di Birkenau” di Liana Millu è fra le più intense testimonianze europee sul lager femminile di Auschwitz-Birkenau: certamente la più toccante fra le testimonianze italiane - disse Primo Levi - Consta di sei racconti, che tutti si snodano intorno agli aspetti più specificamente femminili della vita minimale e disperata delle prigioniere. La loro condizione era assai peggiore di quella degli uomini, e ciò per vari motivi: la minore resistenza fisica di fronte a lavori più pesanti e umilianti di quelli inflitti agli uomini; il tormento degli affetti familiari; la presenza ossessiva dei crematori, le cui ciminiere, situate nel bel mezzo del campo femminile, non eludibili, non negabili, corrompono col loro fumo empio i giorni e le notti, i momenti di tregua e di illusione, i sogni e le timide speranze».

Il 25 gennaio Lombi parlerà anche di questo testo, presentato accanto a un altro volume scritto sempre da una donna sopravvissuta alla Shoah: Giuliana Fiorentini Tedeschi. «Spesso ci si dimentica che le prime testimoni immediate, dopo il ritorno dai campi, furono proprio le donne che trovarono da subito la forza del racconto e affrontarono la fatica di ripercorrere la memoria di un trauma immenso». In “Questo povero corpo” poi ampliato con “C’è un punto della terra... una donna nel lager di Birkenau” Giulia Fiorentini Tedeschi racconta: «Private violentemente degli abiti, ultimo possesso e ricordo di casa, ci trovammo nude di fronte a noi stesse nel locale delle docce. Fu come se qualcuno ci strappasse insieme alle vesti qualcosa del nostro bagaglio spirituale. (...) La nostra nudità, senza schermo e senza difesa, era doloroso impaccio. (...) Apprendemmo a vestire la nostra nudità di solo odio e disprezzo».

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