La mia vita da comasco in Sud Sudan: «Per me è casa, ma non è una nazione facile da vivere»

Il racconto La scelta estrema di Matteo Perotti: volontario a 50 anni tra gli abitanti di una delle regioni più povere del mondo

Se lo ascoltiamo, il nostro istinto in apparenza irrazionale ci porta dove mai avremmo pensato. Non basta qualche esperienza di volontariato internazionale durante gli anni di università per spiegare razionalmente la scelta di trasferirsi in Sud Sudan presa 11 anni fa dal comasco Matteo Perotti. Dev’esserci, a giustificarla, qualcosa di più imponderabile. «Ho fatto un dottorato in ingegneria e quando sono arrivato a Wau, in Sud Sudan, si aspettavano che volessi svolgere un lavoro coerente con i miei studi. È finita che ho fatto di tutto», racconta a un gruppo di persone riunite prima di Natale a Casa Nazareth, a Como.

L’occasione, oltre al ritorno di Matteo nella città in cui è nato e cresciuto, è la decisione della Caritas diocesana di Como di proporre una raccolta fondi d’avvento a favore dell’ospedale fondato a Wau dai missionari comboniani, il Comboni Hospital, che è diventato un riferimento per tutto l’Ovest del Paese, aiutando in particolare le famiglie più povere. L’area cui l’ospedale si rivolge è sproporzionata rispetto alle sue dimensioni: 100 letti, per una regione da dove, in un solo mese, arrivano più di 270 donne per partorire. «In Sud Sudan muoiono 1150 donne ogni 100mila parti: un tasso di morte per parto tra i più alti al mondo. Alcune di loro arrivano in ospedale con un’emorragia in corso che si protrae già da giorni, arrivano trasportate dai familiari su barelle improvvisate, oppure in motocicletta. Ci sono tanti casi di infezioni e setticemia avanzata e ho visto morire alcune delle mie studentesse durante il parto. Ma in Sud Sudan si è abituati alla morte, lo dicono sempre tutti: quando si nasce, si muore».

L’inflazione e il futuro incerto

Le condizioni già precarie del sistema sanitario nazionale sono rese ancora più complesse da una galoppante crisi economica, con l’inflazione che flagella la regione ormai dai anni, e l’arrivo di nuovi profughi dal Darfur, dopo l’inizio della guerra in Sudan. «Sappiamo che lì sono sempre più le donne violentate che hanno bisogno di assistenza sanitaria: è un modo di fare la guerra radicato, utilizzato nella convinzione che stuprare le donne possa essere un modo per “annacquare” la cultura dell’avversario». Da quando, nel 2011, il Sud Sudan si è reso indipendente dal Sudan, (dopo una serie di scontri iniziati nel 1972 e che avevano già portato alla conquista di un’autonomia poi abolita nel 1983), il Paese non ha mai affrontato delle vere e proprie elezioni, ma alla fine del 2024 arriverà finalmente anche per i sud sudanesi il momento di votare.

Matteo è collaboratore volontario anche di una radio cattolica locale e si è posto l’obiettivo di creare quanta più informazione possibile, nonostante l’alto tasso di analfabetizzazione (tra le donne raggiunge l’87%) in vista delle elezioni, ma in diversi luoghi il segnale radio non arriva nemmeno. Da molti sud sudanesi poi le elezioni sono considerate una possibile causa di guerra civile, come accaduto nel 2013, con lo scoppio di un conflitto etnico terminato solo nel 2020. «Avevo cinquant’anni quando ho lasciato l’Italia, mi è costato farlo - spiega Matteo - Mi sono sentito come un albero che raccoglie tutte le proprie radici e se ne va. Era un’esigenza che sentivo da tempo». Per rispondere a quell’esigenza Matteo non ha voluto mezze misure: «La scelta è stata quella di vivere in mezzo alla gente: nel loro mondo vedo le cose sempre più con il loro punto di vista».

La vita a Wau

Una scelta senza sconti, che lo costringe a far fronte in prima persona alle tantissime difficoltà con cui chi è nato e vive in quell’area quotidianamente si confronta. «Qui gli stipendi sono molto bassi, anche per chi, come me, lavora nell’istruzione, tra i 13 e i 20 dollari. L’aspetto più difficile da gestire è la spesa mensile: per via dell’inflazione, dovuta a un’economia debolissima che ha fatto arricchire pochi e morire molti, prima della fine del mese i soldi guadagnati all’inizio non valgono più niente. Bisogna essere bravi a comprare quello che serve e tenere da parte qualcosa per le emergenze. È una nazione usurante, nel senso che è difficile porsi obiettivi e vederli realizzati. Per me oggi però è casa».

Le due raccolte fondi (una proprio per il Comboni Hospital di Wau) per il Sud Sudan realizzate durante l’Avvento 2023 dalla Caritas diocesana di Como e oggi ancora aperte, hanno raggiunto al 31 dicembre la cifra di 24mila euro.

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