Noi e il cibo, come nasce un disturbo alimentare: «Nostra figlia e le sue difficoltà. Quanto conta chiedere aiuto»

La storia «Non mi piaccio», una frase che è più di un campanello d’allarme. Patrizia e Salvatore raccontano il loro percorso di risalita: «Oggi va meglio»

«C’è un momento in cui arrivi a sentirti impotente. Vedi tua figlia che si fa del male, non ne capisci il perché. Non sai come aiutarla. Ti metti davanti a lei e vorresti impedirle di continuare. Ma così alzi solo un muro, diventi un ostacolo alla sua guarigione, un qualcosa che lei sa aggirare e che provoca solo distanza tra voi. E’ stato allora che ci siamo accorti che avevamo bisogno di aiuto, di qualcuno che ci insegnasse a non essere d’ostacolo, ma a camminare al suo fianco».

Salvatore Chirillo e la moglie Patrizia Alfieri stanno concludendo un percorso di psicoterapia e sostegno al Centro Ananke di Como al fianco della figlia. Sono una famiglia che insieme ha scelto di scavare al fondo di un problema, condividendone le fatiche e ora la soddisfazione per averlo guardato in faccia. A 16 anni, in piena adolescenza, la giovane ha iniziato a mostrare i sintomi di un preciso disturbo alimentare, l’anoressia nervosa, fino ad arrivare a pesare in circa un anno 32 chili, distribuiti su un metro e 50 di altezza.

«Stasera non mangio»

«Poco prima che si aprisse la fase emergenziale della pandemia ha iniziato a dire che non aveva più fame – raccontano oggi i genitori – “Non ho appetito” “Stasera non mangio”. Ma la frase che ha fatto scattare il campanello d’allarme è stata “Non mi piaccio”. In pieno primo lockdown, quando i ragazzi come sfogo avevano solo lo schermo di un cellulare, il disturbo di nostra figlia è esploso. È stata presa da un’ossessione per il controllo, perché si era prefissata un ideale di perfezione fisica, quella rimandata dai social, che non è reale e che la stava distruggendo». L’aggravarsi della situazione era ormai evidente. «Controllava tutto: gli ingredienti, i condimenti, il peso del cibo. Siamo arrivati a preparare cene e pranzi separati per andarle incontro. Ma niente. Si rifiutava sempre più spesso di mangiare e si chiudeva in camera a sottoporsi ad allenamenti estenuanti, ore e ore di cyclette per avere quella pancia piatta che vedeva nelle foto di Instragram». Il primo passo è stato rivolgersi a un nutrizionista: «Ma non è servito a nulla. Lei ci ingannava e non seguiva la dieta. Eppure quando tutto è iniziato era una ragazza assolutamente normopeso, non riuscivamo a comprendere da dove arrivasse questa sua ossessione per il cibo. Intanto nostra figlia stava sempre peggio, è arrivata a sfiorare il ricovero. Abbiamo deciso di chiedere un aiuto psicologico».

Trovare la forza

È successo poi in terapia, al centro Ananke di Como, che nella ragazza e nei suoi genitori è emersa una consapevolezza profonda sul perché tutto questo stava accadendo. «Ancora oggi siamo seguiti separatamente da una psicoterapeuta e poi condividiamo delle sedute comuni di raccordo, per fare il punto. Ora lei sta molto meglio, ha ritrovato il peso che la fa stare in salute. Quello che le è successo affonda le radici molto probabilmente in un trauma familiare che tutti noi abbiamo vissuto. Il suo farsi del male abbiamo capito che è stata una forma di attaccamento a quel periodo ed esprimeva la difficoltà di non riuscire a lasciare andare quella sofferenza. Ma sono consapevolezze a cui senza aiuto non saremmo mai riusciti ad arrivare. Bisogna trovare la forza di chiedere aiuto e come genitori di mostrare ai figli con l’esempio che ci sono cose positive, che il futuro non è nero e che la vita è bella e sa sorprenderti».

© RIPRODUZIONE RISERVATA