Quando una foto sa raccontare la sofferenza

Fotoreportage Bettina è l’autrice di “Se mi guardi esisto”, un reportage che evidenza il ruolo fondamentale dell’immagine nel narrare il dolore

Bettina Musatti è una fotografa brasiliana, comasca d’adozione, che fin dalle sue prime esperienze lavorative ha avuto a che fare con storie importanti e spesso dolorose: «Ho una formazione giornalistica nell’ambito del fotoreportage e anni fa ho lavorato per la “Folha de Sao Paulo”, dove non c’era la possibilità di rientrare al giornale senza la fotografia richiesta. La mia prima foto importante - diventata poi la prima pagina del quotidiano - l’ho scattata quando avevo appena 18 anni ed ero ancora in prova, ma in quel momento non c’erano altri fotografi disponibili per il servizio.

La storia era quella di un componente dell’esercito che, sapendo di avere l’Aids, aveva donato il proprio sangue e infettato, in ospedale, dei bambini. Ho dovuto - come spesso diciamo noi - “rubare una foto” entrando in ospedale senza chiedere il permesso a nessuno. Il lavoro che ho fatto negli scorsi anni insieme a Croce Azzurra, invece, non ha nulla che fare con il “rubare” le immagini, perché sono state le persone a rubarmi il cuore».

Malati o fragili

“Se mi guardi esisto” è un reportage divenuto poi una mostra allestita in diverse località - tra le quali anche la Biblioteca “Paolo Borsellino” di Como - che aveva lo scopo di raccontare l’impegno dei volontari: «Grazie al presidente Francesco Cattaneo e alla responsabile della comunicazione Laura Bernasconi ho avuto modo di scoprire questo mondo. Ho individuato le famiglie che si appoggiavano alla Croce Azzurra per diversi servizi e mi sono presentata loro attraverso una lettera, chiedendo il loro consenso per poter eventualmente fotografare i loro cari. Non tutte le famiglie volevano partecipare, ma sono andata a conoscerle. All’inizio non ho neppure usato la macchina fotografica, volevo sapere chi erano e cosa facevano e, durante i tragitti percorsi insieme, ascoltavo».

Il punto di partenza di Bettina è stato, dunque, prima di tutto comprendere le diverse storie: «Credo che - come fotografa - la cosa più importante, quando si ha a che fare con persone malate o fragili, sia conquistare la loro fiducia, saper ascoltare, capire le situazioni, osservare per poi eventualmente cogliere l’attimo trasferendole in immagini. Ci sono stati tanti momenti difficili: Maria Cristina, ad esempio, che accompagnavamo tutte le settimane in ospedale per la cura di un tumore, un giorno mi ha chiesto esplicitamente di non fare foto perché non era la giornata giusta; mi sono seduta a farle compagnia, ascoltandola e cercando di confortarla. Credo che questo sia importantissimo, ascoltare chi hai davanti».

Non soltanto volti

Il tempo ha consentito di far crescere le relazioni tra Bettina e gli altri: «Mi rendo conto che si entra nella vita di queste persone attraverso l’obiettivo della macchina fotografica, condividendo gioia e sofferenza. Vedere i progressi di alcuni - come Marta o Maria Rita - sono stati momenti emozionanti. Le foto non sono solo volti, ma sono essere umani che ho avuto la fortuna di conoscere; sono stata attenta a non cadere nel banale ed è stata una delle esperienze umane più belle che ho vissuto. La mia responsabilità era far vedere le persone in modo “bello”, senza preconcetto, senza fare del male; le mie grandi soddisfazioni sono state superare i “no” iniziali facendomi conoscere come essere umano, portare allegria e gioia, ricevere dei disegni, veder piangere di gioia per un regalo, scoprire di dare energia».

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