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Martedì 15 Luglio 2025
Quarant’anni da Live Aid. Rock e solidarietà
Un’altra musica Da Lennon a Geldof, da Bowie ai Queen. Storia di un’intuizione figlia di un po’ di zapping alla tv
Como
Bastano un momento di noia, un divano, un televisore e un telecomando e un artista è in grado di generare un capolavoro.
Per il testo di una delle più grandi canzoni della storia del rock, quella “A day in the life” posta a suggello del “Sgt. Pepper” dei Beatles, John Lennon si ispirò al suo zapping incrociato con la lettura distratta dei giornali: un film di guerra, un incidente stradale, contate 10mila buche a Blackburn nel Lancashire. Anche David Bowie costruì le parole, alquanto ermetiche, di “Life on Mars?” giochicchiando con il “remote control”, un brano che si spiega solo immaginando di fissare uno schermo fissando distrattamente le immagini e collegandole senza un senso compiuto. Anche Bob Geldof stava solo guardando la tv, saltando da un canale all’altro. A un certo punto si soffermò su un reportage del giornalista Michael Buerk sulla carestia che stava affamando l’Etiopia. Immagini che, tristemente, osserviamo anche oggi, a quarant’anni di distanza: bambini denutriti e malati, con le mosche sugli occhi e una scarsissima aspettativa di vita. Chissà, forse anche Geldof aveva visto decine di filmati simili – in fondo aveva un passato da giornalista anche lui, pur se dedito al punk rock – eppure qualcosa scattò in quel momento. Prima, assieme a Midge Ure degli Ultravox, riuscì a realizzare quel singolo cantato da un cast di all stars arrivato in testa alle classifiche natalizie, “Do they know it’s Christmas”. Poi venne invitato ad assistere alla realizzazione dell’omologo americano, “We are the world” (che, non essendo legato a una festività, era ancora più universale oltre che, va detto, più orecchiabile). Finiti quegli exploit di generosità, peraltro, gli artisti tornavano alla loro vita di tutti i giorni, fatta di dischi, interviste, apparizioni e, naturalmente, tournée.
Fu proprio durante l’ultima tappa dell’“A kiss across the ocean tour” dei Culture Club che Boy George ebbe l’idea di inserire in scaletta, alla fine, “Do they know it’s Christmas” a cui avevano partecipato anche loro. Riduttivo farla da soli e, così, il cantante chiamò alcuni dei big coinvolti, Elton John, George Michael, Paul Young e Tony Hadley degli Spandau Ballet. E il pubblico della Wembley Arena, semplicemente, impazzisce.
Da quel momento l’idea di un grande evento, anzi, del più grande evento rock solidale mai realizzato fino a quel momento. Pare impossibile, ma in soli sette mesi si passò dal pensiero al doppio live del 13 luglio 1985, sulle due sponde dell’Atlantico, allo stadio londinese e a quello di Philadelphia, intestato a Jfk. Sarebbe troppo lungo elencare i partecipanti e i momenti topici: ognuno ha i suoi preferiti, dagli U2 con Bono che si lancia in mezzo al pubblico per salvare una ragazzina che rischiava di rimanere schiacciata dalla folla, ai Queen e i riuniti Led Zeppelin che, in contrasto, realizzano la migliore e la peggior performance delle rispettive carriere, passando per Dylan che, prima di cantare, bofonchia «Spero che una parte del denaro raccolto per le persone in Africa — magari un milione o due — possa essere usata, per esempio, per pagare i mutui delle fattorie che gli agricoltori qui devono alle banche», generando involontariamente il successivo “Farm aid”. Lasciamo l’ultima parola a Geldof: «Abbiamo preso un tema che non era affatto presente nell’agenda politica e, attraverso la lingua franca del pianeta – che non è l’inglese ma il rock ’n’ roll – siamo riusciti ad affrontare l’assurdità e la ripugnanza morale del fatto che delle persone muoiano di stenti in un mondo di surplus». Non ha salvato l’Etiopia o l’Africa, ma nessuno al mondo ha più potuto ignorare la tragedia.
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