La fuga di cervelli accade anche in Svizzera e potrebbe essere «una sfida da consigliare»

Intervista Renato Martinoni, professore di letteratura all’Università di San Gallo affronta uno dei temi più dibattuti in Ticino. Con una visione controcorrente: «Si cerca di andare dove ci sono le condizioni migliori. E vale anche per gli italiani»

Studiano in Svizzera, magari anche in Canton Ticino, ma poi vanno verso le città interne della Confederazione o in altri Stati. Sono i giovani che si stanno formando per essere la futura classe dirigente e il loro allontanamento dalla Svizzera, preoccupa, tanto che se ne è parlato nella prima edizione dell’evento “Ticino Day” lo scorso 17 maggio, organizzato dagli studenti ticinesi dell’università di San Gallo che hanno voluto discutere sul futuro del cantone vicino all’Italia. Un incontro al quale hanno partecipato studenti, professori, politici, imprenditori e aziende del Ticino all’università di San Gallo.

Il professor Renato Martinoni, professore emerito di letteratura italiana all’Università di San Gallo, dove ha tenuto la cattedra, in qualità di ordinario, dal 1992 al 2018 è stato coinvolto nel “Ticino Day” analizzando anche il tema della fuga dei cervelli.

Professore, l’evento Ticino Day tra gli altri temi ha evidenziato anche quello della fuga dei cervelli ticinesi verso altri Cantoni svizzeri o altri Stati, sarebbero 800 all’anno. Una cifra che deve preoccupare? E se sì, perché?

Quella che viene chiamata “fuga dei cervelli” è in realtà un fenomeno del tutto normale. Ognuno cerca di lavorare dove trova le condizioni migliori. Ci vuole un po’ di coraggio, capacità di adattamento, disponibilità a fare sacrifici. Dato che le distanze oggi sono spesso relative, andare via diventa meno complicato. C’è addirittura chi giornalmente parte dal Ticino, in treno, per andare a lavorare a Zurigo, tornando la sera. I più invece si fermano, “fuggendo” sì, ma cogliendo l’occasione per formarsi, per fare esperienza in un mondo diverso e per guadagnare di più. Mi sembra una scelta del tutto legittima, anzi vivamente consigliabile.

Dall’Italia il Ticino è visto spesso come un angolo di paradiso al quale tendere per stipendi molto più alti di quelli italiani e opportunità di carriera; sempre più studenti italiani delle zone di confine scelgono le università svizzere. Secondo lei perché e perché invece, al contrario, i cervelli ticinesi fuggono?

Sappiamo che, oltre ai molti lavoratori italiani che attraversano il confine, c’è anche un buon numero di studenti. È un’opzione comprensibile. C’è chi, magari dopo il bachelor, emigra per fare il master in un altro paese, in Europa e anche in Svizzera. Certo, questo costa soldi e non tutti possono permetterselo. Ma non bastano i soldi: il problema, se non ci si ferma a Lugano, è anche linguistico. È vero che in tutte le università elvetiche esistono percorsi interamente in inglese. Ma imparare il francese e il tedesco è fondamentale: oltretutto sono due lingue che permettono di cercare occupazione anche in Francia, in Germania e in Austria. Purtroppo non sono molti in Italia coloro che sono disposti a fare questo ulteriore sforzo. Eppure è davvero importante, se si vuole vivere in realtà diverse senza sentirsi isolati.

È possibile?

Conosco casi di giovani italiani che hanno fatto questa strada e hanno trovato sbocchi interessanti. Due esempi. Un ragazzo trevigiano ha conseguito la triennale di economia a Venezia, poi è andato a imparare il tedesco, non senza grande impegno, e quindi ha fatto la specialistica, ottenendo il master a San Gallo; infine si è sistemato bene e subito, da emigrante laureato, prima in una grande azienda, poi nell’amministrazione dell’università. Un altro giovane ha fatto lo stesso percorso a Roma, è andato a continuare gli studi economici a Zurigo, rimboccandosi per bene le maniche, e oggi lavora in una banca zurighese, in un settore fra l’altro molto prestigioso. È la riprova del fatto che vale la pena di essere disposti a viaggiare, a fare sacrifici e a imparare le lingue. Se si è bravi, credibili, onesti, volenterosi, la strada si apre e le opportunità ci sono.

Chi lascia il Ticino per altre realtà, poi torna e offre valore aggiunto al Cantone dal quale è fuggito?

Chi si è formato seriamente da qualche parte e poi decide di tornare nei luoghi dove è cresciuto diventa per forza di cose un valore aggiunto. Porta con sé le competenze che ha acquisito, un’esperienza in parte diversa, la conoscenza di nuovi mondi, quindi di altre mentalità e di altri valori, etici e professionali, oltre che di altre lingue. Tutto questo non può che essere positivo. Per la persona che lavora, per l’azienda che gli offre l’impiego e per la società in cui vive.

Se dovesse mettere allo specchio l’università italiana e quella svizzera, nella quale lei ha operato, quali analogie e differenze rimarcherebbe?

Tanto in Italia che in Svizzera ci sono ottime università. Alcune sono migliori di altre: perché hanno esperienze secolari, tradizioni scientifiche illustri, un forte desiderio di investire e di rimanere aggiornate. Ma anche un ateneo fatto di “eccellenze” può perdere punti se non guarda di continuo avanti, se non ha visioni chiare da perseguire e traguardi da raggiungere a breve e a lunga durata, se mancano i mezzi finanziari. Per questo il mondo politico non può tergiversare, quando si parla di università. Si fa molto in fretta a perdere il treno. Ci sono poi settori in cui un’università può eccellere, tanto nel campo scientifico che in quello umanistico. Per cui è difficile fare dei confronti, se non si tiene conto di tutti questi fattori. Una questione resta però centrale: occorre fornire a chi lavora nelle università, ai giovani, agli studiosi formati, a chi ha assunto con gli anni autorevolezza scientifica e di insegnamento, sul piano nazionale e internazionale, i mezzi per poter lavorare bene e liberamente, in contatto, va da sé, con altri centri di ricerca. Premiandolo, quando lo merita. Meno burocrazia c’è e tanto meglio vanno le cose. Conta anche lo spirito che regna all’interno di una università. Aggiungo due cose che riguardano la mia, quella di San Gallo, la più importante nell’ambito degli studi economici non solo in Svizzera, ma anche in Germania. Mi è capitato spesso che mi si affidasse un compito. Occorreva farlo, e subito. Ma ogni volta che ho domandato qualcosa, la risposta è sempre stata immediata. Questo fa funzionare il sistema e crea uno spirito costruttivo di solidarietà. Un dettaglio, forse molto banale ma esemplare: ricordo che un rettore, professore di economia, dava del tu al capo dei bidelli, e il capo dei bidelli faceva lo stesso con il rettore, ancorché il rispetto reciproco rimanesse sempre alto. Il bidello veniva invitato regolarmente alla cena di fine anno dei professori. Sembrerebbe una storiella populista, eppure questo è un segno di rispetto, di democrazia e di disponibilità a lavorare tutti insieme, senza discriminazioni, per il bene comune.

Leggo che un candidato al Gran Consiglio ticinese, prima delle recenti elezioni, lo scorso febbraio propose un assegno per favorire il rientro in Ticino dei giovani “fuggiti”. Pensa sia una buona idea?

L’assegno consisteva, almeno nella proposta, in una riduzione delle tasse da pagare nel Ticino durante i primi cinque anni per i giovani che sarebbero tornati. L’idea potrebbe parere allettante, ma non tiene conto di alcuni elementi che rivelano una conoscenza parziale o ingenua della realtà delle cose. Se molti ticinesi non tornano è perché nella Svizzera d’oltralpe trovano, oltre che uno stipendio migliore, un mondo meno contaminato da interessi partitici e da partigianerie, maggiori opportunità di far valere il merito personale senza cadere nelle raccomandazioni, una base dinamica per viaggiare nel mondo, per stabilire nuovi contatti, di studio e di lavoro, per fare esperienze davvero innovative e qualificanti. La questione finanziaria è in realtà solo uno dei motivi per cui c’è chi, almeno per un po’ di anni, se non per sempre, decide di non rientrare. Non basterebbero certo delle condizioni fiscali più attraenti per fargli cambiare idea. Per questo la proposta del candidato mi è sembrata davvero ingenua e tutt’altro che vincente.

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