Anche il tessile è slow: «Filiere più tracciabili»

Tessuti “buoni, giusti, durevoli” nel nuovo manifesto di Slow Fiber. Il fondatore Dario Casalini: «Prevenire lo spreco già in fase di produzione»

Como

Slow Fiber riunisce ventinove aziende italiane della moda e dell’arredamento, unite da un doppio obiettivo: aumentare la consapevolezza sull’impatto ambientale e sociale del tessile e promuovere filiere locali e sostenibili. Il fondatore Dario Casalini racconta a La Provincia di Como i principi base di questa nuova alleanza.

Come è nata Slow Fiber?

Slow Fiber nasce nel 2022 dall’incontro tra il movimento Slow Food e un gruppo di aziende italiane virtuose della filiera tessile. Condividendo i principi di Slow Food, queste realtà hanno voluto portare anche nel tessile un nuovo modello culturale e produttivo, capace di offrire prodotti belli perché buoni, puliti, giusti, sani e durevoli.

Uno dei principi di Slow Fiber è il concetto di “bellezza”. Cosa significa?

Per noi la bellezza non è solo forma o apparenza, ma un valore profondo. È la bellezza di un capo o di un tessuto pensato per durare, realizzato con materiali sicuri, tracciabili e non tossici. È la bellezza che nasce dal rispetto per chi lo ha prodotto, dal sapere artigianale, da filiere trasparenti e responsabili. È anche la bellezza di un processo che non impoverisce l’ambiente, ma lo custodisce.

Quali sono i passi più urgenti che l’industria tessile italiana dovrebbe compiere per diventare più sostenibile?

Il primo passo urgente è investire in filiere tracciabili e responsabili, evitando lo sfruttamento della manodopera a basso costo per opportunismo e profitto. Occorre invece valorizzare il lavoro dignitoso e ripensare la progettazione fin dall’inizio, includendo il fine vita del prodotto. Serve anche educare ad un consumo responsabile: aiutare le persone a riscoprire il valore delle cose fatte bene, a scegliere consapevolmente e ad apprezzare il racconto che ogni prodotto porta con sé e a non approfittare di prezzi ingannevolmente bassi, che poi riversano su di noi il costo salatissimo dello sfruttamento ambientale e sociale. Il secondo tema è ridurre i volumi. Oggi produciamo e consumiamo molto più del necessario.

Come si costruisce un sistema veramente “chiuso” per la gestione del rifiuto tessile?

Costruire un sistema chiuso significa ripensare alla radice il modo in cui progettiamo e produciamo. Non basta puntare sul riciclo: serve una progettazione consapevole, che privilegi fibre naturali o sintetiche già riciclate o facilmente riciclabili, certificate e monocomponenti, così da rendere più semplice l’ulteriore riciclo, riuso o recupero. Occorre attivare cicli virtuosi di upcycling e downcycling, ma soprattutto prevenire lo spreco già in fase di produzione. Il riciclo è solo un rimedio parziale: la vera sfida è evitare che il rifiuto si generi, o ridurlo al minimo. Alcuni di noi già sperimentano soluzioni di upcycling degli avanzi di magazzino - principalmente filati, pizzi e tessuti - o di riciclo degli scarti pre-consumo che sono nuovamente trasformati in filo o in carta e cartone. Laddove non è possibile un percorso fiber to fiber tutto interno alla filiera tessile, si possono trovare soluzioni in altri settori industriali, ad esempio edilizia, carta e altri.

Quali sono le esperienze più interessanti con cui siete venuti in contatto, per quanto riguarda la produzione di seta?

Molti di noi utilizzano la seta in purezza o in mischia intima con altre fibre naturali e pur non avendo ancora aziende seriche comasche nella rete Slow Fiber, molte di queste sono nostre fornitrici, clienti o partner di progetti. Oltre a ciò, siamo venuti in contatto con numerose piccole iniziative che tentano di ricreare filiere della seta a partire dall’allevamento dei bachi, talvolta anche da parte di operatori agroalimentari vicini a Slow Food. A oggi nessuna di queste iniziative ha raggiunto una scala sufficiente a coinvolgerla pienamente nella nostra filiera, ma ogni passo in questa direzione va sostenuto e incoraggiato.

Come funziona l’adesione a Slow Fiber? c’è già qualche azienda aderente in Lombardia?

Noi abbiamo elaborato un sistema molto articolato di requisiti e KPI sulla base dei nostri valori fondanti: buono, che esprime il modello di filiera; pulito, con cui misuriamo e ci impegniamo a ridurre l’impatto ambientale; giusto, concernente la sicurezza e salubrità dei luoghi di lavoro e i diritti dei nostri dipendenti e collaboratori; sano, cioè che promuove un uso attento della chimica per la salute dei lavoratori e dei consumatori dei nostri prodotti; e infine durevole, ossia destinato a durare, essere riparato e non diventare rapidamente rifiuto. Non vogliamo diventare certificatori e le certificazioni tessili esistenti sono recepite nel modello come sufficienti a dimostrare il possesso di alcuni requisiti, ma vogliamo mantenere un approccio molto sostanziale all’eticità della filiera tessile.

Possiamo a ragione affermare che siamo stati precursori del “protocollo di Milano” e del bollino di certificazione della filiera della moda che è in discussione nelle ultime settimane dopo gli scandali che hanno colpito la filiera tessile italiana. Dalla Lombardia, segnalo come fondatori di Slow Fiber la tintoria Fellicolor e Olcese Ferrari, a cui si è aggiunto subito dopo il Gruppo Albini.

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