Continuità generazionale. La ricetta Bauli funziona

Storie di impresa Michele Bauli ripercorre la storia centenaria del Gruppo che ha trasformato il pandoro in un simbolo nazionale. Regole precise per la governance familiare; gestione a manager per garantire stabilità e visione strategica

Dal primo laboratorio artigianale a Verona all’apertura di sei stabilimenti in Italia e due in India. Una storia lunga più di cento anni che ha trasformato un cognome, in un marchio iconico del made in Italy.

Michele Bauli, presidente di Bauli Group, è stato il relatore principale dell’incontro “Strumenti per favorire la continuità generazionale nelle imprese familiari” organizzato l’8 ottobre da Confindustria Como con The European House Ambrosetti e Valori Asset Management. Riportiamo alcuni passaggi del suo intervento.

Storia iniziata negli anni Venti

«Mio nonno Ruggero lavorava in una pasticceria a Verona, erano tempi in cui le persone facevano la coda per acquistare il pandoro, nel 1922 ha aperto il suo primo laboratorio con negozio, è stato lui a creare l’immagine del pandoro Bauli. Era una persona molto “elastica”, disse a mio zio Alberto di studiare economia, così avrebbe saputo fare i conti; a mio padre Adriano di iscriversi a farmacia, perché lì si studiava chimica, ai tempi non esisteva scienza dell’alimentazione, per occuparsi del prodotto; e infine a mio zio Carlo di studiare legge, perché in un’azienda serve sempre qualcuno che sappia di diritto. I tre fratelli seguirono le sue indicazioni, completarono gli studi ed entrarono in azienda con ruoli ben definiti tra gli anni Cinquanta e Sessanta, furono loro a compiere il vero salto trasformando una pasticceria in un’industria. Decisero di investire nella fabbrica, nell’automazione, nella crescita dei mercati e nel trasformare il pandoro, allora un dolce tipicamente veronese, nell’alternativa nazionale al panettone».

La terza generazione

«Sono stato il primo della mia generazione a entrare in azienda nel 1997. Bauli Spa appartiene da decenni alla Ruggero Bauli Spa, controllata da tre holding, una per ciascun ramo della famiglia».

«La mia generazione conta sei persone e poi c’è la nuova generazione, quella dei nostri figli, una dozzina, più o meno. Siamo tanti e proprio per questo ho sempre pensato che un’azienda non è una democrazia, non si può gestire un’impresa con 18 o 19 persone che votano su tutto. Servono regole chiare».

La struttura societaria

«Avevamo già una base solida su cui costruire, i tre fratelli fondatori sono sempre andati d’accordo e questo ha fatto la differenza. In un’azienda familiare l’armonia è un valore enorme. Noi siamo riusciti a mantenerla, e anche tra cugini pur con qualche normale discussione, c’è sempre rispetto, dialogo e unità d’intenti. Quando abbiamo iniziato il percorso per creare il patto di famiglia e mettere un po’ d’ordine nella nostra azienda, la situazione era tranquilla, “la casa non bruciava”, tutto funzionava bene. Proprio per questo è stato un passo importante, perché l’abbiamo fatto non per urgenza, ma per lungimiranza».

Un processo durato un anno

La cosa più importante è stata capire chi eravamo e come volevamo porci come famiglia e come soci. E su questo mi piace citare la frase, attribuita a Peter Drucker: “La cultura mangia la strategia a colazione”. È verissimo. Puoi avere la strategia migliore del mondo, ma se non c’è una cultura condivisa, non si va lontano. Si possono scrivere tutte le regole immaginabili, ma alla fine ciò che davvero conta è lo stomaco e la pancia delle persone più ancora del cervello. È lì che si decide se le regole vengono rispettate, se l’armonia familiare regge o si incrina. Perché puoi cercare di capire se un ragazzo ha la propensione o meno a entrare in azienda, ma cosa fai se lui vuole entrare, ma non è adatto? Come glielo spieghi senza rompere equilibri e affetti? Sono questioni delicate, spesso più umane che tecniche.

Distinzione tra i diversi ruoli

«Dipendente, manager, consigliere di amministrazione oppure socio. Ognuna di queste funzioni comporta diritti e doveri diversi, e non è affatto detto che tutti debbano lavorare in azienda. La scelta che abbiamo fatto è stata quella di puntare innanzitutto a essere buoni azionisti, consapevoli e responsabili, e poi per chi ne ha le capacità e la vocazione, buoni consiglieri, manager o dipendenti. Questo passaggio per noi è stato più semplice perché già dai primi anni Ottanta i tre fratelli avevano deciso di managerializzare l’azienda, si erano sganciati dall’attività operativa, avevano mantenuto il ruolo di consiglieri di amministrazione e avevano affidato la gestione quotidiana a una squadra di manager professionisti. Questo ha aiutato molto la mia generazione. Ci ha permesso di entrare con un’idea chiara: non voglio fare il direttore commerciale o il direttore marketing della mia azienda, voglio trovare i migliori professionisti disponibili, che abbiano le competenze giuste e affidar loro la responsabilità di fare il prodotto. Come membro della famiglia Bauli, voglio essere bravo a definire gli obiettivi strategici e a controllare che il management li realizzi correttamente. La generazione dei miei figli se vuole fare il manager deve competere sul mercato con professionisti esterni. Questo impedisce conflitti delicati, non vogliamo trovarci nella situazione di dover dire a un figlio o a un nipote “hai sbagliato, ti licenzio”. Preferiamo affidare la gestione a manager esterni e concentrarci invece su formare persone competenti come consiglieri o azionisti consapevoli, aspetto fondamentale per il buon andamento dell’azienda. Un’impresa funziona solo se c’è una visione strategica chiara e questa si costruisce attraverso il consiglio di amministrazione».

Condivisione delle informazioni

« In qualità di presidente cerco di essere il punto di connessione tra famiglia e management, organizzando riunioni prima dei consigli di amministrazione. L’obiettivo è arrivare al consiglio già allineati con le decisioni sostanzialmente prese, in modo che il management riceva un input chiaro e unitario. Lo facciamo soprattutto nella holding Ruggero Bauli, dove ci troviamo frequentemente, coinvolgendo anche chi vive fuori dall’Italia, così da creare consenso sulle decisioni strategiche prima di formalizzarle nel cda».

La quarta generazione

«Abbiamo definito regole precise per l’ingresso in azienda: requisiti minimi di studio, esperienze lavorative esterne e un percorso strutturato per poter accedere al cda. Siamo ora in una fase di formazione della nuova generazione, stiamo spiegando loro cosa facciamo e come funziona l’azienda. Per ora ognuno segue il suo percorso di studi e di esperienze lavorative, solo in futuro vedremo chi deciderà di entrare attivamente. Questi momenti di formazione sono preziosi anche per i membri della mia generazione meno coinvolti direttamente nell’attività perché permettono di sentirsi parte dell’azienda, capire cosa sta succedendo e seguire le scelte strategiche».

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