Dazi: «Un danno a lungo termine»

In copertina Se le tariffe diventeranno strutturali, secondo l’economista Rodolfo Helg, caleranno produzione e posti di lavoro

dalla volatilità dell’amministrazione americana ai nuovi equilibri geopolitici, Rodolfo Helg, professore ordinario di Economia politica all’Università Liuc, analizza i rischi e le possibili opportunità per il nostro sistema produttivo alla luce delle nuove relazioni commerciali tra Stati Uniti e Unione europea.

La trattativa sui dazi tra Stati Uniti e Unione europea sembra essere giunta a una fase conclusiva dopo la dichiarazione congiunta di giovedì scorso che formalizza l’accordo del 27 luglio: è corretto attendersi difficoltà significative per le esportazioni italiane o si potranno trovare strade alternative?

Sono tendenzialmente pessimista. Se non ci fossero stati i dazi, la situazione sarebbe stata molto più semplice.

Abbiamo subìto quella che si può definire un’aggressione economica da parte degli Stati Uniti. L’Europa ha scelto una linea di moderazione, sospendendo per sei mesi i controdazi, che potrebbero però essere introdotti tra dicembre e gennaio. Credo sia stata una scelta saggia per evitare una guerra commerciale totale, che avrebbe rappresentato il segnale peggiore per l’economia globale. Detto questo, per i produttori italiani dei settori chiave come il tessile, il sistema casa e la meccanica, i dazi rappresentano un problema concreto.

C’è chi ipotizza che, per aggirare le tariffe, alcune aziende italiane potrebbero decidere di investire direttamente in siti produttivi negli Stati Uniti: è uno scenario realistico?

Sì, da ogni problema possono nascere delle opportunità. L’impresa che non era ancora presente negli Stati Uniti potrebbe decidere di scavalcare il dazio andando a produrre direttamente sul suolo americano. Se diverse aziende si muovono in questa direzione, significa che l’idea era forse già in fase di valutazione e i dazi hanno semplicemente accelerato la decisione. Dal punto di vista della singola azienda, che prima serviva il mercato statunitense dall’Italia e ora lo fa da uno stabilimento locale, la strategia può essere ottimale. Tuttavia, dal punto di vista macroeconomico italiano, le implicazioni sono negative: i posti di lavoro legati a quella produzione verranno, prima o poi, persi in Italia per essere creati altrove.

Oltre ai dazi, un altro fattore critico del nuove scenario delle relazioni Italia Usa è l’incertezza, con quali conseguenze?

L’elemento peggiore di questa situazione è la volatilità delle decisioni del presidente Trump. La sua politica commerciale è un continuo susseguirsi di annunci, marce indietro e rilanci. Questa imprevedibilità rende estremamente difficile per le aziende pianificare gli investimenti a medio e lungo termine. Se un imprenditore avviasse oggi un costoso piano per aprire un impianto negli Stati Uniti solo per evitare i dazi, e tra pochi mesi il presidente decidesse di rimuoverli, quell’investimento perderebbe la sua ragione strategica principale.

Le imprese, per essere dinamiche, hanno bisogno di un contesto internazionale basato su regole chiare, un contesto che l’attuale amministrazione americana ha sistematicamente smantellato.

Questo segna una rottura profonda con il passato: come è cambiato il quadro del commercio internazionale?

Vivevamo in un mondo basato sulle regole, presidiate dall’Organizzazione mondiale del commercio. Anche in passato ci sono state tensioni. Ricordo quando l’amministrazione Bush impose dazi sull’acciaio; l’Unione europea e il Giappone protestarono presso l’Omc, che aprì un panel di esperti. Dopo sei mesi, il panel concluse che gli Stati Uniti agivano contro le regole perché non sussistevano le condizioni di “danno grave” all’industria locale previsto dalle eccezioni. Il presidente Bush, pur essendo il capo della più grande potenza mondiale, fece marcia indietro ed eliminò i dazi. Questo era il vecchio mondo. Oggi, il presidente Trump ha dichiarato esplicitamente di non essere interessato a un mondo regolato, ma a un mondo basato sulla forza e sulla base di questo prende le sue decisioni. Questo è il cambio di paradigma fondamentale.

In questo scenario, la risposta europea è apparsa debole. È una colpa di Bruxelles o le cause sono più profonde?

È un paradosso. Sul commercio internazionale, l’Unione europea dovrebbe essere più forte che mai, perché ai tavoli dell’Omc siede un unico rappresentante per tutti i paesi membri, a differenza di quanto accade, per esempio, nelle riunioni del Fondo monetario internazionale.

La debolezza non è di Bruxelles in sé, ma è il risultato della riluttanza degli stati nazionali a cedere ulteriore sovranità per creare una politica estera e di difesa veramente comune. Non abbiamo voluto fare i passi necessari verso una maggiore integrazione e in un momento di conflitto come questo ne paghiamo le conseguenze.

Guardando ad altri mercati, si parla molto dell’India come sbocco alternativo, tuttavia, le recenti tensioni tra Nuova Delhi e Washington, con la minaccia di Trump di raddoppiare i dazi per l’acquisto di petrolio russo, complicano il quadro: qual è la sua lettura?

La situazione è delicata e potenzialmente pericolosa. Da anni l’Unione europea e l’India negoziano per creare un’area di libero scambio, che per le nostre imprese sarebbe un’opportunità enorme, dato che l’India è uno dei mercati con la crescita più rapida al mondo. Se riuscissimo a concludere l’accordo, le nostre aziende avrebbero un accesso privilegiato a un mercato immenso. Tuttavia, la pressione americana sta spingendo l’India, storicamente alleata degli Stati Uniti contro il gigante cinese, a riavvicinarsi a Pechino. Stiamo assistendo a un possibile riallineamento di alleanze commerciali e politiche che credevamo consolidate. È un terremoto geopolitico.

Ci sono già segnali concreti di queste tensioni nelle relazioni commerciali?

Sì. I dati Eurostat di giugno mostrano che le esportazioni dell’Unione europea verso gli Stati Uniti sono diminuite del 10% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente.

Questo non è ancora l’effetto diretto dei dazi, che vedremo nei dati di settembre e ottobre, ma è il risultato del clima di incertezza.

A marzo, al contrario, avevamo assistito a un boom di esportazioni, poiché molte aziende avevano accelerato le consegne per anticipare l’arrivo delle tariffe. Questo dimostra come l’instabilità da sola sia già un fattore di disturbo per il commercio.

In definitiva, se questi dazi dovessero diventare una caratteristica stabile del panorama internazionale, quale sarebbe la conseguenza finale per l’economia italiana?

Se le tariffe del 15% dovessero stabilizzarsi, creerebbero una difficoltà gestibile per molte aziende, ma il vero danno a lungo termine sarebbe strutturale. Un numero significativo di imprese italiane riterrebbe più conveniente spostare parte della propria attività produttiva negli Stati Uniti.

Come detto, questa scelta potrebbe essere vantaggiosa per la singola azienda, ma per l’Italia nel suo complesso significherebbe una perdita netta di produzione, investimenti e, in ultima analisi, di posti di lavoro.

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