È crollato il numero dei contratti aziendali: «Ma tornerà a crescere»

L’esperto Rebora, docente di Relazioni industriali alla Liuc: «Effetto pandemia e guerra, la prospettiva resta positiva»

Pubblicato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il Report sull’andamento dei premi di produttività ha fatto segnare un crollo degli accordi: dagli 11.615 contratti depositati nel 2019 si è passati ai 6.784 del 2020 con un trend simile anche nel 2021.

Ad incidere sono il quadro socioeconomico dovuto sia alla crisi pandemica che alla situazione incerta, conseguenza della guerra in Ucraina.

Gianfranco Rebora, docente di Relazioni industriali e tecniche di negoziazione alla Liuc - Università Carlo Cattaneo ed esperto di politiche aziendali ci aiuta ad inquadrare ciò che è accaduto.

Con quale funzione nasce questo strumento?

I premi di risultato hanno una storia lunga; si è sempre puntato sul fatto che la contrattazione aziendale potesse integrare quella statale sul piano remunerativo, valorizzando allo stesso tempo la produttività e quindi anche la qualità di un’impresa e le relazioni interne. Ci sono stati alti e bassi; all’inizio era solo una minoranza di aziende coinvolte, in base alla loro dimensione, alla competitività e al loro grado di internazionalizzazione. Il calo degli ultimi due anni si lega a questo fatto; le aziende che hanno economicamente meno forza hanno segnato il passo. I datori di lavoro sono legati alla situazione contingente; mentre sul versante sindacale c’è un atteggiamento difensivo e l’assunzione di rischio nel coinvolgersi con parametri che sono di fatto legati alla competitività trova qualche remora.

Negli ultimi anni quali fattori hanno condizionato la diffusione della contrattazione aziendale?

Dal 2016 vi è stata una maggiore diffusione grazie alla defiscalizzazione. Un altro fattore che ha favorito queste politiche aziendali è stato la possibilità di una conversione dei premi in benefit di welfare. Il salario diretto da accesso a benefici che sono monetizzabili con vantaggio fiscale e si sono fatti piani di welfare annuali concordati con i sindacati. Si realizza in questo caso una convergenza di interessi in cui l’azienda gioca la sua capacità economica sull’influenza che può avere all’esterno e a favore dei lavoratori e spunta condizioni più favorevoli per i suoi dipendenti

Qualche esempio di accordo sul welfare?

Direi più di uno. C’è il caso di Luxottica, la prima realtà aziendale di rilievo diventata un modello di riferimento nel panorama industriale italiano con iniziative di assistenza economica, sanitaria, educativa e sociale per i dipendenti e i loro familiari. Quello di Leonardo, interessante perché offre un quadro organico e completo con premi di risultato ma anche smart working e welfare. C’è poi l’accordo recente del gruppo Atlantia per la definizione di un modello equo e inclusivo di remunerazione, che si articola in: retribuzione fissa nel rispetto dei principi di proporzionalità e di sufficienza; retribuzione variabile di breve e lungo termine, con una variabile annuale legata al raggiungimento di obiettivi rilevanti per l’azienda in termini di risultati economici-finanziari e una sostenibilità sociale, ambientale e di buon governo; retribuzione in azioni per impiegati dove le parti riconoscono un fondamentale strumento di condivisione del valore, di fidelizzazione dei propri dipendenti e di coinvolgimento degli stessi nella vita aziendale e in fine una retribuzione in natura per cui si riconosce ai dipendenti un piano di welfare del valore di 2000 euro netti all’anno, per usufruire di un paniere di servizi e prestazioni.

Parlando di piccole e medie imprese, è possibile anche per le aziende più piccole offrire piani di welfare?

È chiaro però che per le Pmi è più difficile fare accordi così completi. Per quanto riguarda le piccole realtà sono nate delle reti in cui numerose imprese si sono associate per gestire questi servizi su uno schema comune.

C’è Giunca per esempio che è la prima rete di imprese dedicata al welfare aziendale e nata nel 2012 e che ha lavorato in modo innovativo. Fra i suoi obiettivi c’è infatti l’aggregazione e la condivisione; mettendo a fattor comune buone prassi ed esperienze di successo già sperimentate dalle singole aziende, progettano nuove sinergie che aumentano la competitività aziendale. Dobbiamo ricordare che fare del welfare non è solo un’istanza etica ma anche un business aziendale. Il periodo di crisi dovuto al Covid prima ed ora alle conseguenze della guerra ha indebolito la forza delle imprese impedendo loro in alcuni casi di convogliare risorse su questi temi anche se in questa fase sarebbero ancora più importanti.

Come vede il futuro del welfare aziendale e degli incentivi?

Il tema è destinato a restare e sarà sempre più legato alle performance dell’azienda e al coinvolgimento dei lavoratori. È un terreno di impegno di lungo periodo che troverà congiunture più o meno favorevoli, ma tutte le relazioni industriali di quest’ultimo decennio sembra vadano in questa direzione. Credo ci sia una prospettiva favorevole. C’è una convergenza condivisa fra parti sociali, imprese, stato, che in questi ultimi anni ha rafforzato il proprio sostegno in tal senso, e dipendenti.

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