«La seconda vita della moda amplia la fascia dei clienti. Un fenomeno che durerà»

Nuovi trend L’analisi di Marc Sondermann, ceo di Fashion Magazine: «Può essere un modo per far scoprire ai giovani le firme della moda»

Il guardaroba della nonna non è mai stato così di moda, spopola il vintage per gli accessori firmati, piacciono anche ai giovanissimi i cimeli degli anni 80 e tornano in auge i completi sartoriali.

Il riutilizzo è sostenibile, ma dimentica il valore e il lavoro che produce l’economia della moda. Marc Sondermann, Editor-in-chief e ceo Fashion Magazine e eBusiness Magazine, è ottimista, la moda concilia le tendenze e rinasce sempre, soprattutto quando è “lusso”.

Sull’attuale momento di rallentamento degli ordini per il tessile potrebbe incidere in negativo l’ulteriore spinta data dalla moda del riutilizzo che recupera i capi usati a scapito dei nuovi prodotti?

È vero che nella parte alta del mercato ci sarà un maggiore ricorso al riutilizzo di capi di qualità, ma mi piace pensare che questo fenomeno possa ampliare la fascia di utenti anche ai giovani che possono così permettersi capi di lusso e cominciare ad apprezzare la qualità. Il second hand è trendy, ecologico ed economico, tre elementi che lo rendono adatto a giovani. Questo non va ad asciugare la domanda originale del nuovo, non nel settore lusso che tiene, ma magari incide nei saturi mercati occidentali dove il fenomeno è più esteso. Non è pericoloso per l’economia della moda, piuttosto per i brand il problema è non avere il controllo sull’autenticità dei prodotti con la loro firma. Questo è il vero tema dei grandi nomi del lusso per riuscire a mantenere il potere del prezzo, per questo stanno già introducendo metodi di riconoscimento del prodotto, per essere sicuri che è loro e magari cercare di riacquisirlo per rivenderlo.

Passerà presto di moda il riuso dei capi delle collezioni di qualche anno fa o davvero è cambiata la cultura dei consumi?

Il second hand è un fenomeno interessante ma è presto per capire se è strutturale, tuttavia gli indicatori suggeriscono che resisterà nel tempo. Adesso a New York, Parigi, Londra, Berlino e Amsterdam e naturalmente Milano, a Brera, si nota che i negozi di capi usati dilagano, oltre alle piattaforme on line. Sono punti vendita di riferimento, spesso curati, originali e trendy come gli stessi negozi delle griffe e dei multimarca. È vero che la moda continua a riproporsi, ma si tratta in questo caso solo di prodotti veramente belli e di qualità, la parola chiave è “durevoli”. Va riconosciuto che questi nuovi format di vendita sono molto abili nel mixare proposte di anni addietro, includendo capi ormai dimenticati con abiti più recenti. Questo sapiente mix diventa estremamente accattivante ed è un driver di sostenibilità. Da questo punto di vista è evidente che è imbattibile prendere un prodotto, usarlo e rimetterlo nel ciclo del consumo, invece di buttarlo.

E allora come il fenomeno del riuso inciderà sull’economia della moda?

Adesso c’è una discrasia tra ciò che dichiarano le aziende di moda e retail circa gli obiettivi di sostenibilità e il parossismo delle proposte del fast fashion che, come consumatori, valutiamo essere meno durevoli di prima. Si sta aprendo un divario tra prodotti di qualità, che durano nel tempo, e altri che continuano a essere realizzati per non durare. Il vulnus è: non si può concepire un’economia circolare se il prodotto è talmente scarso che dopo tre utilizzi si autodistrugge.

In base alla richiesta di sostenibilità dei consumatori, ci si aspetta quindi che le proposte immesse sul mercato si orientino verso capi sempre più validi da un punto di vista qualitativo?

È possibile. I fashionisti di punta, che influenzano di più il mercato, stanno pubblicizzando e cavalcando il fenomeno del riutilizzo, che presuppone la qualità. Non stupisce che la Lombardia sia leader in questa direzione, perché è la principale capitale della moda, il luogo dove i trend arrivano per primi e poi si diffondono nel resto d’Italia.

I rischi per la filiera a monte della moda possono essere di crisi profonda?

Un’economia sostenibile e circolare non è detto che metta in discussione le produzioni italiane, anzi. Intanto la filiera italiana negli ultimi anni è già stata ridimensionata ed è passata da un milione e mezzo di addetti a mezzo milione. Ma si rivolge sempre più all’alto di gamma, a una frazione dei consumi mondiali, perché il mercato del lusso e il consumatore del lusso possono permettersi di essere attenti ai problemi di sostenibilità.

La filiera italiana è certificata e più sostenibile di altre filiere. Il nostro prodotto è rivolto alla fascia alta e domina il mercato, perché gode del prestigio del prodotto “made in Italy”. Bisogna però fare attenzione perché non è detto che rimanga sempre così.

Perché no?

Non è detto che il “fatto bene” sia eternamente italiano, è un’ illusione pericolosa. Sento dire che tante aziende anche dal Far East e dall’Est europeo stanno crescendo. Serve quindi continuare perseguire sempre più l’alta qualità, anche perché il lusso sta andando molto bene. Infatti il made in Italy ha avuto due anni d’oro, in cui addirittura non è riuscito a sostenere la domanda. Adesso c’è un grande grido di allarme ed enormi lamentele, ma il mercato, fino a poco tempo fa, è andato benissimo e le imprese che gestiscono assennatamente le risorse economiche non credo siano in difficoltà. Certo che se l’attuale momento di ripiegamento dovesse continuare, allora diventerebbe un problema, ma vedo che le aziende si stanno già mettendo ai ripari.

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