Imprese e Lavoro / Como città
Lunedì 01 Dicembre 2025
Ricetta Mapei per la crescita: cultura del merito e investimenti
L’intervista Veronica Squinzi, ad della multinazionale della chimica, ospite d’onore alla Festa delle Imprese di Como.Multinazionale familiare con una strategia industriale di sobrietà e reimpiego totale degli utili per lo sviluppo
Ospite d’onore alla festa delle Imprese, Veronica Squinzi, amministratore delegato e direttore dello sviluppo globale del gruppo Mapei Group, ha raccontato, intervistata dal direttore de La Provincia Diego Minonzio, il suo percorso nell’azienda familiare che ha saputo trasformarsi in una realtà multinazionale mantenendo un forte legame con il territorio.
Come si è formata la sua leadership all’interno di Mapei?
L’azienda mi ha permesso di conoscere fin da giovanissima tutte le sue anime: dalla produzione ai laboratori, dalla parte commerciale ai mercati esteri. Quando entrai, il Gruppo era ancora di dimensioni ridotte e questo mi ha dato l’opportunità di seguire da vicino l’evoluzione della complessità organizzativa. Mio fratello e io abbiamo sviluppato competenze complementari: lui più tecnico e analitico, io più orientata alle persone e ai processi decisionali condivisi. Questo equilibrio ci consente di affrontare la crescita con realismo, mantenendo un approccio unito e coerente con la nostra cultura familiare.
La governance di Mapei è spesso citata per la forte presenza femminile: è casuale o dovuta a una scelta consapevole?
Non è una scelta di principio, ma una conseguenza diretta del nostro modo di lavorare: selezioniamo chi è più preparato, senza guardare al genere. Oggi nel CdA la presenza femminile è maggioritaria e molte posizioni chiave all’estero sono affidate a donne, anche in aree culturalmente più “maschili”. Sono cresciuta in un ambiente familiare in cui le figure femminili avevano un ruolo determinante: mia madre, mia nonna, mia zia. Di conseguenza, l’idea che una donna potesse prendere decisioni importanti è sempre stata naturale. La nostra unica bussola resta la meritocrazia.
Un tema dibattuto sono le quote rosa: il suo punto di vista è cambiato nel tempo?
Sì. Da giovane ero convinta che non fossero utili. Oggi vedo che, in alcune situazioni, possono rappresentare un acceleratore culturale, aiutando sistemi rigidi a muoversi. Naturalmente non sono il punto di arrivo: quello resta la piena parità basata sul merito. In azienda lavoriamo perché la maternità non diventi un freno: offriamo strumenti di flessibilità, supporto e rientro agevolato, affinché il percorso di carriera non si interrompa. È un investimento necessario per costruire una cultura del lavoro più equilibrata.
La sua leadership viene spesso definita “gentile”, cosa significa per lei?
La intendo come capacità di ascoltare, di inglobare punti di vista diversi e di farne sintesi. Non vuol dire rinunciare alla decisione: quella rimane imprescindibile. Ma si può decidere senza essere bruschi o aggressivi. Alla fine, le persone che si sentono ascoltate contribuiscono meglio alla qualità delle scelte. Mio fratello e io viviamo il lavoro in questo modo: presenza costante, confronto quotidiano, partecipazione diretta. È una cultura che genera appartenenza e responsabilità, non un clima paternalistico.
Il vostro stile di impresa è poco incline all’ostentazione, è una scelta precisa rispetto a una parte dell’imprenditoria spettacolare di oggi?
È il nostro modo naturale di essere. Siamo stati educati a considerare la crescita aziendale come priorità assoluta: per crescere servono solidità e investimenti. Da azienda familiare, senza accesso al mercato azionario, tutto ciò che generiamo viene reinvestito. Questo ci ha consentito di aprire fabbriche in tutto il mondo e di mantenere un ritmo di sviluppo sostenuto. La sobrietà non è un vezzo: è una strategia industriale.
Mapei è attiva in restauri di grande valore simbolico, da Notre Dame alla Basilica di San Francesco: che significato hanno per voi questi progetti?
Hanno un valore identitario. Quando crollò la volta di San Francesco, sviluppammo materiali compatibili per mettere in sicurezza gli affreschi di Giotto. Sono lavori che richiedono rigore scientifico e sensibilità storica. Non sono operazioni che spostano i bilanci, ma arricchiscono la visione dell’azienda e danno un contributo concreto alla conservazione del patrimonio. Lo stesso avviene nei progetti archeologici in Arabia Saudita o nella ricostruzione di Notre Dame: partecipare è un privilegio e una responsabilità.
Il rapporto tra Mapei e lo sport è storico: a cosa è dovuta questa vicinanza che va dal ciclismo al calcio?
Lo sport rappresenta valori nei quali ci riconosciamo: visione, fatica, lavoro di squadra. Mio padre era un grande appassionato di ciclismo e, con mia madre, trasformò quella passione in uno strumento di comunicazione innovativo, persino estetico. La divisa con i disegni dei cubetti colorati fu un’intuizione all’epoca spiazzante, poi diventata un segno distintivo. Il calcio, con il Sassuolo, è stata una forma di restituzione verso un territorio che ci ha permesso di crescere, grazie anche al distretto ceramico. Lo sport, per noi, è sempre stato un ponte.
In un periodo di crisi dell’intermediazione, dal sindacato alle associazioni di impresa, quale ruolo vede per gli imprenditori?
È un ruolo che non può essere abbandonato. Mio padre credeva profondamente nel dialogo tra impresa, istituzioni e lavoratori: solo così si costruisce una politica industriale solida. Oggi è più difficile, ma non per questo meno necessario. In Confindustria Lombardia mi impegno soprattutto sull’internazionalizzazione, perché ritengo fondamentale offrire supporto alle aziende che vogliono crescere all’estero. Non penso che i piccoli possano farcela da soli, ma che possano diventare più forti attraverso reti e filiere.
Che giudizio dà della scuola italiana e del valore della formazione?
La formazione è un asset fondamentale. La scuola italiana, nonostante criticità note, forma persone con solide basi teoriche e buone capacità gestionali. I miei figli frequentano la scuola pubblica e lo considero un valore. Il gap con i sistemi anglosassoni riguarda la dimensione pratica, ma sul piano culturale e cognitivo la qualità è elevata. In Mapei troviamo ottimi talenti in Italia: tecnici, ingegneri, manager. Per questo non credo che l’estero sia un passaggio obbligato, benché resti un’opportunità di crescita.
Molti giovani però partono per studiare e lavorare all’estero: è un problema o una risorsa?
Una risorsa. Non ragiono più in termini di “fuga”: le persone oggi vivono esperienze globali senza perdere radici. Noi stessi incentiviamo la mobilità, con programmi di scambio nelle nostre sedi nel mondo e iniziative per riportare in Italia chi ha acquisito competenze fuori. Mescolare culture, competenze e approcci diversi arricchisce l’intero gruppo.
Qual è stato il momento più complesso della sua carriera?
Una grande delusione, anni fa, su un progetto internazionale che non andò come speravo. Pensai seriamente di lasciare. Mio padre mi disse: “se vuoi capire davvero, vai a vivere lì”. Lo feci. Da quell’errore è nata una delle filiali oggi più solide del gruppo. Ho imparato che l’errore è parte del percorso, a volte una leva per riorientare strategie e rafforzare modelli. Come diceva Mandela: “non si perde mai, si impara”. E questo vale soprattutto per un’impresa che vuole continuare a crescere.
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