Gli avelli, un mistero delle terre di confine

Un nuovo libro sui sepolcri del V-VI secolo scavati nei massi erratici. L’autrice è andata a cercare tutti quelli ancora visibili: ben trentasei tra Como, Lecco, Sondrio e le valli svizzere. Ne emerge una mappa dai molteplici potenziali

Se i trovanti sono giganteschi altari di quella chiesa senza confini che è madre natura, gli avelli sono altari trasformati in sepolcri, quindi sacri al quadrato. La carenza di informazioni che abbiamo su chi e perché abbia creato queste sepolture, finemente scavate in rocce alpine portate dai ghiacciai del quaternario fino alle soglie della piana lombarda, ne accresce il fascino e il mistero. Queste pietre interrogano l’archeologo, ma anche qualsiasi persona curiosa dell’ambiente che ci circonda. Hanno pure un potenziale turistico, essendo adatte a stimolare una scoperta lenta e approfondita, non consumistica, dei nostri monti e delle nostre valli.

Per tutti questi motivi appare prezioso un libro -“Loro. Il racconto di una autentica, personale, ossessione per i massi avelli” - appena pubblicato dalle Edizioni New Press e firmato dalla brianzola Laura Porta, che non è una addetta ai lavori, nel senso che nella vita non studia le rocce e nemmeno la storia antica, però si occupa di comunicazione, competenza a volte utile per fare arrivare oltre la cerchia ristretta dei “professionisti” temi di interesse pubblico. E gli avelli sono, senz’altro, tra questi.

L’autrice si è documentata sulle pubblicazioni scientifiche precedenti. In primis l’articolo “Le tombe e le pietre pendenti nelle vicinanze di Torno”, pubblicato dal canonico Vincenzo Barelli sulla “Rivista archeologica della provincia e antica diocesi di Como” (RAC) nel 1872, quello in cui per primo accostò le parole “masso” e “avello” (“bacino”, ma anche “sepolcro” in Foscolo e altri autori) per definire queste singolari sepolture. Poi, a distanza di oltre settant’anni l’una dall’altra si sono succedute due pubblicazioni che hanno provato a censire queste tombe concentrate per lo più nell’area lariana: “I massi avelli della regione comense”, saggio di Antonio Magni apparso sulla RAC nel 1922 e “I massi avelli del comasco ed altre notizie archeologiche del territorio di Torno” di Giancarlo Frigerio, opuscolo edito nel 1981 e arrivato nel 2010 alla quarta ristampa ampliata in coedizione tra Pro Loco di Torno e Società archeologica comense, di cui l’autore è presidente in carica.

La ricerca

Laura Porta ha fatto un lavoro utile sia alla comunità scientifica sia ai cultori del territorio lariano, mettendo a frutto un’altra sua passione, quella per il cicloturismo, per andare a verificare le condizioni degli avelli già noti e l’esistenza di altri variamente segnalati nel tempo. Spinta da quella che lei stessa non esita a definire “ossessione”, ha “intervistato” non solo gli esperti (il già citato Frigerio e Clelia Orsenigo, direttrice del Museo civico di Erba, e gli antropologi del Meab - Museo Etnografico Alta Brianza), ma anche le persone radicate nei luoghi che ha visitato, per cercare di ricostruire tradizioni e credenze legate a queste pietre così singolari e provare a capire chi possa averle scavate. Alla fine avanza un’ipotesi/suggestione, che però non può essere suffragata da prove, non essendo mai stati trovati corredi o iscrizioni negli avelli. Ovvero che questi massi si trovino in prossimità del “limes” lungo il quale, secondo quanto scritto da Paolo Diacono nella “Storia dei longobardi” (789), “il magister militum” bizantino Francione resistette per vent’anni (569-588) ai longobardi medesimi e che l’“insula Comacina” citata nello stesso testo come baluardo difensivo, corrispondesse a un territorio più ampio dell’isola vera e propria, coincidente con l’intero Triangolo Lariano, area in cui maggiormente si concentrano gli avelli.

La mappatura

Nel complesso Laura Porta ne ha rintracciati 18 in provincia di Como: quattro a Torno, tre a Faggeto Lario (due a Lemna più una porzione in una casa di Palanzo), tre a Erba, di cui due esposti al Museo civico, quindi uno per ciascuna delle seguenti località: Magreglio, Guello di Bellagio, Valbrona, Scaria, Plesio, Cremia e Como (a Quarcino, lungo l’antica via Valeria per Monte Olimpino). In provincia di Lecco ne ha intercettati 12: due ciascuno a Galbiate e Barzago, uno a Bulciago, Sirone (oggi al Monumentale di Milano), Costa Masnaga, Nibionno, Dolzago, Civate e Dervio. Quattro se ne contano in provincia di Sondrio: due in Val Codera (Novate Mezzola), uno a Traona e Berbenno. Per finire, due in Svizzera: uno a Stampa in Val Bregalia e l’altro a Sagno nella Valle di Muggio. In tutto sono trentasei.

Altri sette sono stati distrutti: tre nel 1850 a Molina di Faggeto Lario, uno per Comune a Torno (località Montepiatto), Zelbio, Longone al Segrino e a Rovio in Canton Ticino. Ulteriori sei sono “mancati all’appello”, ovvero erano presenti in precedenti “censimenti”, ma non sono stati trovati dalla “cercatrice di avelli”, in alcuni casi per un motivo preciso, che indichiamo tra parentesi: a Eupilio, Longone località Beldosso (interrato), Costa Masnaga, Oggiono, Scaria, Ponna Inferiore (murato nelle fondamenta di una casa). Infine, dodici sono stati rubricati come “casi da verificare”: tre a Colle Brianza, due che i cartelli turistici a Civenna indicano come avelli ma probabilmente erano semplici sarcofagi, uno ciascuno a Barzago, Lasnigo, Dongo, Como (San Carpoforo), Calolziocorte, Gordona e Sotto il Monte (unico in provincia di Bergamo).

È una felice coincidenza che questo libro esca nel bicentenario della nascita di Antonio Stoppani, il primo in Italia a dare una spiegazione scientifica della provenienza dei massi errartici, o trovanti. Prima di Stoppani, questi blocchi di pietra dalle forme e dimensioni eccezionali e di materiali diversi dalle terre circostanti hanno dato origine a spiegazioni leggendarie che spesso hanno scomodato il “divino”. In epoca cristiana più di un autore li ha interpretati come prove del diluvio universale. Prima, dall’età della pietra a quella del ferro, i nostri progenitori vi hanno inciso coppelle, il cui significato, probabilmente nella maggioranza dei casi rituale, non è certo, così come pare destinata a rimanere incerta l’identità delle popolazioni che tra il V e il VI secolo hanno scavato questi massi per ricavarvi tombe, alcune dotate anche di un “cuscino”, lasciandoli in loco e senza lavorare la parte esterna. Nei secoli successivi, all’acqua che si raccoglie nelle loro cavità il popolo ha attribuito poteri taumaturgici. Di sicuro meritano rispetto e cura.

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