Guerra al copyright, da Dürer ai robot

Il grande artista tedesco fu il primo a intentare una causa a Venezia quando la stampa favorì il proliferare di copie false delle sue incisioni. Ora l’intelligenza artificiale apre nuovi scenari

È il 1506 e siamo a Venezia. Un tedesco longilineo, dalle chiome fluenti, fa il suo ingresso alla Serenissima per sporgere querela. Il querelato è un incisore italiano, Marcantonio Raimondi, che commercia stampe prodigiose in composizione e prospettiva. La firma è sempre la stessa: A D. Esattamente come quella del fiammingo che, solo pochi anni prima, aveva visto le sue incisioni viaggiare verso Venezia per essere messe in vendita. Anche i soggetti, il tratto, la prospettiva sembrano identici ai suoi. Lui è Albrecht Dürer e pretende che la Repubblica di Venezia impedisca quel proliferare di copie fantasma a suo nome. «Però, non ottenne altro, se non che Marcantonio non facesse più il nome e né il segno sopradetto d’Alberto nelle sue opere» ci dice il Vasari, chiudendo così una diatriba che viene, spesso, considerata la prima sul copyright.

Nel 1486, però, la Serenissima aveva già dovuto affrontare un caso analogo con colui che diverrà suo storiografo ufficiale, Marcantonio Sabellico. L’uomo chiese e ottenne di proteggere dalla pirateria il suo “Historiae rerum Venetiarum”, che raccoglieva la storia “ufficiale” della Repubblica di Venezia. Pena per il plagio, una pesantissima multa di 500 ducati. Inoltre, il Doge gli concesse un privilegio: Marcantonio poté scegliere il suo stampatore di fiducia, in una città in cui le copie illegali erano diventate un business.

Se Hollywood sciopera

Restiamo in Laguna, ma spostiamoci avanti nel tempo di circa cinquecento anni. È settembre 2023 e al Festival del Cinema di Venezia si consuma la consueta sfilata di attori e registi sul red carpet. Quest’anno, però, i volti sono perlopiù italiani. Il sindacato che rappresenta gli attori di Hollywood ha indetto uno sciopero che li dissuade dal partecipare a produzione e promozione dei film, quindi anche ai Festival e alle prime ufficiali. “Challengers”, il film di Luca Guadagnino con Zendaya che avrebbe dovuto aprire questa ottantesima edizione, è stato sostituito da “Comandante”, con Pierfrancesco Favino. La grande macchina dei sogni americana si è inceppata sulle stesse questioni che portarono Sabellico e Dürer alla Serenissima: il diritto d’autore. E, ancora una volta, Venezia ne è il palcoscenico.

La questione è stata risolta solo di recente, dopo 118 giorni di sciopero. L’accordo ha definito quali royalties saranno dovute a attori e sceneggiatori dai colossi dello streaming come Netflix e, soprattutto, ha imposto limiti all’uso dell’Intelligenza Artificiale nello sviluppo dei progetti cinematografici. La paura degli sceneggiatori di ritrovarsi senza lavoro, con script stesi da un codice informatico, o quella degli attori di essere clonati digitalmente dagli Studios, per il momento, sembra non concretizzarsi.

Hollywood è salva, ma l’arte, il cinema, la letteratura lo sono davvero?

Erano gli anni Trenta quando Walter Benjamin rifletteva sul destino dell’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. L’arrivo di mezzi nuovi, come il cinema e la fotografia, la possibilità di massificare la riproduzione di quadri e sculture, le avanguardie determinate a demolire la sacralità dell’arte andavano compromettendo per sempre l’aura cultuale delle opere.

Oggi, a quasi un secolo di distanza, pare che, perdendo il suo valore intrinseco, l’opera abbia traslato sul suo autore l’unicità che un tempo avrebbe sfoggiato in un museo.

Pensiamo sempre a Hollywood, grande cattedrale del culto: attori adorati come semidei, registi la cui visione diventa oggetto di venerazione di milioni di spettatori. Lo sguardo del fotografo si è sostituito alla mano del pittore, l’artista si è fatto performer e, anche in questi casi, il valore sembra essersi incarnato, riverberando nella persona prima che nell’opera.

Viene da domandarsi a quale fase andremo incontro ora che l’Intelligenza Artificiale promette un’arte senza umani, opere senza autori. Con quali strategie tuteleremo il valore che rimbalza tra autore e creazione, che fa di un manufatto, un film, un’immagine un patrimonio collettivo da preservare?

Per provare a rispondere, dobbiamo tornare indietro di un decennio e recuperare il selfie di un macaco diventato virale sui social. Si tratta dell’autoscatto di Naruto, una scimmia indonesiana appropriatasi della fotocamera del fotografo David Slater. Come spesso accade sui social, l’immagine è stata condivisa a cascata, ribattuta da quotidiani e postata anche da Wikipedia. Al proprietario, però, non è stato riconosciuto alcun compenso. La battaglia legale di Slater è durata più di cinque anni. Dal diritto d’autore del fotografo si è passati a dibattere sul copyright da riconoscere al macaco. Dopo anni di scontri, ridotto sul lastrico, Slater ha accettato di devolvere il 25% dei suoi incassi alla protezione della specie Macaca Nigra.

Un caso analogo si è verificato lo scorso settembre ma, questa volta, la scimmia è stata sostituita dall’algoritmo. L’artista Matthew Allen ha partecipato a una competizione del Colorado con il quadro “Théâtre D’opéra Spatial”, un rarefatto interno proiettato in un futuro lontano. Quattro figure femminili si stagliano misteriose su un oblò intriso di luce. L’opera si è classifica prima e, da allora, si è aperta una nuova disputa sul copyright. Per realizzarla, infatti, l’autore si è affidato all’Intelligenza Artificiale generativa MidJourney. Sebbene abbia dovuto impartire al software più di seicento istruzioni e abbia ingrandito e modificato con Photoshop la grafica, l’ufficio per il copyright degli Stati Uniti ha stabilito che l’opera non sia tutelabile dal diritto d’autore perché il suo creatore non sarebbe umano.

Creatività e algoritmi

Se, da un lato, questa decisione sembra non tenere conto della creatività necessaria a produrre arte con la macchina, dall’altro rappresenta una presa di posizione radicale a tutela dell’ingegno umano. Non rendendo riscuotibili i profitti su opere generate con l’AI, si disincentiva il suo utilizzo nell’industria culturale, agevolando autori e artisti in carne ed ossa. Oggi Hollywood, ad esempio, non avrebbe alcun interesse economico a sostituire gli umani con i software.

Impossibile prevedere se le cose cambieranno e quale nuovo valore assumerà l’arte. La sacralità con cui ammantiamo gli artisti andrà definitivamente persa in favore di un’impersonale creazione algoritmica? O il conflitto non sarà tra uomo e macchina ma tra l’autore che la utilizza contro chi non ne fa uso? O, ancora, inibiti nella creazione, sposteremo l’attenzione verso il nostro statuto di spettatori, critici, analisti?

Qualunque scenario ci attenda, va preso atto della portata di questa rivoluzione, ricordando la lezione impartita dalla Serenissima a Dürer e Sabellico. Come la Repubblica di Venezia difese il diritto d’autore di un’opera di pubblica utilità, necessaria alla costruzione della sua mitologia, ma rigettò le istanze di chi chiedeva solo di tutelare il proprio lavoro, così il copyright resta una lancetta puntata sugli interessi di chi lo regolamenta. Che si tratti di uomini, scimmie o intelligenza artificiale, il riconoscimento della propria creatività continuerà a dipendere da influenze esterne, sedimenti di memoria, frammenti di visioni altrui e dall’incessante progredire della tecnologia. La creazione rimane un processo misterioso, giocato sulla distanza tra ciò che esiste e ciò ancora dev’essere concepito. In questo spazio conteso da più forze si gioca la nostra partita di creatori. Sarà, forse, questo vuoto da colmare l’ultimo, grande, segreto capace di restituire all’arte la sua sacralità.

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