Il Gaudí italiano: genio dimenticato

Il friulano D’Aronco ridisegnò Istanbul tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, Fautore di un personale approccio al liberty, in Italia ci ha lasciato il municipio di Udine. L’autore dell’articolo gli ha dedicato un romanzo

Abbiamo un Gaudí e non lo sappiamo. Nemmeno io lo sapevo, prima di dedicargli il mio ultimo romanzo, “L’autunno del sultano” (Solferino, 2024), facendogli vestire i panni dell’investigatore levantino. Ma questa è un’altra storia.

La storia che mi preme raccontare qui è quella vera, molto romanzesca come vedrete ma vera, di uno dei più importanti architetti italiani, un autentico genio del liberty: il friulano Raimondo D’Aronco (1857-1932). L’architetto ufficiale dell’ultimo sultano, Abdul Hamid II, il “sultano rosso”, crudele e sanguinario. L’architetto che ha dato un volto nuovo, moderno a una città magica, dalle mille identità come Costantinopoli/Istanbul, a cavallo tra fine Ottocento e primi del Novecento.

Cresciuto in cantiere

Ma prima di questa incredibile avventura, Raimondo ha modo di conoscere bene i materiali perché da ragazzino, ad appena quattordici anni, viene mandato a Graz a imparare il “mestiere” nel cantiere del leggendario Franz di Moggio, muratore, costruttore e impresario edile. Tutto questo perché Raimondo è un ragazzo vivace, Attila è il suo soprannome, e il padre Girolamo, titolare di una piccola impresa di costruzione attiva tra Gemona e Udine, decide per una soluzione drastica. «A 14 anni tu ti sbarazzi di me con molta disinvoltura lasciandomi in balia di me stesso e nella possibilità di subire le cattive influenze ed i cattivi esempi di operai rozzi, viziosi, e cattivi»: così racconta Raimondo in una toccante lettera al padre. Ma quel sacrificio alla lunga si rivela una carta vincente: Raimondo impara a conoscere e trattare i materiali da costruzione con una perizia incredibile.

Sono gli anni in cui l’architettura spopola. A Barcellona il genio di Antoni Gaudí sta trasformando il profilo della città catalana con le sue linee sinuose, ispirate alla natura: gusci, conchiglie, insetti, ali di farfalla, pistilli di fiori. A Vienna Otto Wagner con il suo rigore teutonico modernizza il classicismo, adattandolo alle nuove esigenze della società, trovando un perfetto connubio tra arte e tecnica, grazie anche al ricorso a nuovi materiali come l’alluminio. A Parigi Eugène Viollet-le-Duc ridà nuova vita ai grandi monumenti medievali della città. Memorabile l’impresa per il restauro di Notre-Dame: l’architetto riporta la cattedrale alle originarie caratteristiche medievali, creando un’unità di stili e integrando elementi architettonici di epoche successive a quella medievale. E proprio nel romanzo “Notre-Dame de Paris” Victor Hugo l’aveva detto: l’architettura è «la grande scrittura del genere umano». «Chiunque nasceva poeta diventava architetto. Tutte le altri arti obbedivano e le si sottomettevano». L’architettura è così l’arte per eccellenza, l’unica in grado di unire al massimo grado l’aspetto concreto, funzionale a quello estetico, astratto.

Troppo innovativo

In questo clima si forma Raimondo, detto Mondo, D’Aronco. Partecipa a diversi concorsi, con alterne fortune: la sua architettura è troppo innovativa. Gli riesce di progettare il cimitero monumentale di Cividale, vero e proprio azzardo cromatico, policromo, rosa e ocra, paradossale primo segno di vita per chi va verso Cividale. Il primo ponte: tra la città dei vivi e quella dei morti.

La svolta avviene nel 1894, quando viene chiamato alla Sublime Porta. Ma nel destino di ogni friulano c’è un terremoto, in patria o in terra straniera, e così in quella torrida estate del 1894 un terribile sisma colpisce Istanbul. Niente esposizione ottomana, per la quale era stato chiamato, ma Raimondo decide di fermarsi.

Si occupa del restauro dei principiali monumenti della città, Santa Sofia, il Gran Bazar e la Piazza dell’Ippodromo e diverse moschee dai nomi roboanti, Sultanhamet, Yeni Cami, Selimyie… Ma soprattutto dà vita a nuovi edifici: l’ultimo palazzo del sultano, Yildiz Sarayi, con i vari padiglioni per il monarca paranoico (recente sede dei tentativi di accordo per una pace tra Russia e Ucraina); il ministero dell’agricoltura in fondo all’iconica Piazza dell’Ippodromo, sede ora della Marmara University; moltissime imponenti fontane che punteggiano la città (tra cui quella, bellissima, di Tophane, ora all’ingresso di Maçka Park); moltissimi appartamenti e villini, come casa Botter, per il sarto olandese del sultano; e da ultimo la residenza estiva dell’ambasciata italiana a Therapia, sul Bosforo, oggetto dell’attenzione qualche anno fa dell’“Espresso” per voce di Cesare de Seta, ma oggi abbandonata e con necessità di una ristrutturazione. Insomma l’Istanbul di fine Ottocento è quella di D’Aronco. E infatti si parla a ragione di «stile D’Aronco», unico e inconfondibile.

D’Aronco è stato un geniale architetto, con una mano bellissima, capace di meravigliosi disegni e schizzi, un autentico ponte tra stile razionale, asburgico e stile orientale, lussureggiante. Un ponte in una città di ponti, in una civiltà di ponti. Un eccezionale personaggio-ponte. È stato quel ponte che Leonardo da Vinci e Michelangelo non sono riusciti a realizzare (come avrebbe voluto il sultano Bayezid II, che interpellò entrambi). Ed è un vero peccato che in un libro documentato e affascinante, fornito di un utilissimo indice finale come “Istanbul” del Premio Nobel turco Orhan Pamuk, vengano citati tutti quelli che hanno contato a Istanbul fin da quando era Costantinopoli, tutti tranne uno: proprio Raimondo D’Aronco! (Motivo anche per cui, a parziale risarcimento, ho scritto “L’autunno del sultano”).

Comunque la storia non è finita. Nel 1909 il sultano cade per mano dei Giovani turchi di Kemal Atatürk - ma Raimondo aveva già diradato i suoi viaggi a Istanbul. Torna in Friuli per concludere un altro progetto di una vita, già avviato prima dell’avventura turca: dare a Udine un municipio degno della città. E Palazzo D’Aronco, com’è noto oggi il municipio udinese, è un meraviglioso edificio liberty, imponente ma al tempo stesso leggiadro, pronto a spiccare il volo da terra, con dettagli geniali. Raimondo non riesce a ottenere un avveniristico pavimento di vetro - simbolo di trasparenza politica - per la Sala del popolo, ma un soffitto di vetro sì. Poi ci sono i bassorilievi esterni sopra le arcate bugnate: il barbiere che si lamentava del cantiere trasformato in un essere dalle orecchie d’asino, con gli amuleti al collo e gli occhi bendati; il dirigibile, la camionetta...

Dell’eccezionalità di Raimondo dà un’efficace sintesi la figlia Rita detta Ninì: «Il carattere di mio padre era irrequieto, difficile, contraddittorio, e sovente incomprensibile... non era un essere comune da poter giudicare. La sua contrastante bellezza, intelligenza e carattere ne facevano una creatura fuori del normale».

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