La montagna oggi, maestra di valori

Le Alpi sono un luogo da rinnovare e salvaguardare in forme vive, non museali. Spazio dove vivere aspetti tritati dal consumismo come lentezza, silenzio, ritmi e limiti naturali

Per secoli l’uomo non ha sentito il bisogno di salire le montagne. I montanari evitavano di spingersi oltre il limite del pascolo perché non ne vedevano l’utilità; i cittadini europei, figli di un’idea arcadica del paesaggio, consideravano le montagne come un oggetto inutile e ingombrante, una specie di tumore cresciuto sulla superficie terrestre. Gli orientali sono andati oltre, individuando la sacralità di un luogo alto, bianco e incontaminato, un limite sacro, fonte dell’acqua e della fertilità.

Il paradigma romantico

Sono stati i romantici a scardinare la vecchia immagine occidentale del monte, quando hanno cominciato a vedervi un luogo particolarmente attrattivo e addirittura sublime. La natura alpina è diventata oggetto di ammirazione estetica, in quanto immensa, selvaggia e non addomesticabile. Al romanticismo si sono affiancati l’alpinismo e la scienza, dunque l’esplorazione delle cime, e dopo sono arrivate la conquista e la sottomissione a scopo militare, sportivo, turistico; così il limite è stato violato in tutte le forme, e le montagne soggiogate ai capricci e agli interessi umani.

Eppure la storia dell’alpinismo insegna che servono sempre delle regole, dei limiti, altrimenti finisce tutto. Se la tecnologia s’impadronisce del gioco, uccide la scalata stessa. Prendiamo Burgener e Mummery, la guida e l’intellettuale, una cordata quasi imbattibile. Vogliono posare le mani sul Dente del Gigante, che è entrato nella leggenda quando Whitwell ha provato a scalarlo con due guide. “Impraticabile!” è stato il verdetto.

Imperturbabili, Mummery e Burgener salgono verso l’ignoto in un’alba del 1880. Il canino svetta strapiombante, come aggredito da una carie incurabile, ma l’inglese e il montanaro intuiscono il passaggio che porta in parete. L’occhio è ipnotizzato dall’abisso, ma forse il granito concede una speranza. Aggirato lo spigolo e guadagnato un pulpito, Burgener affronta la placca appena striata da una ruga di gelo, raschiando mani e piedi sulla pietra; un gracchio veleggia tra i vapori; gli scarponi chiodati fanno scintille, il cuore batte, le dita grattano l’appiglio che non c’è; infine, scornato, il montanaro ritorna sui suoi passi.

«We come back».

«Yes, we come».

Alla base della placca che li ha respinti, Mummery riesuma un pezzo di carta, trova una punta di matita, scarabocchia qualcosa sul foglio e lo nasconde nella fessura del granito.

«Inaccessible by fair means, (insuperabile con mezzi onesti)». Quattro parole che pesano come un macigno.

Nel corso della storia, il senso della montagna rinasce sempre da un’invenzione: scoperta del sublime, esplorazione, turismo, sport. Vale per gli alpinisti e per chi abita le terre alte. Oltre vent’anni fa, quando scrivevo “La nuova vita delle Alpi” (Bollati Boringhieri, 2002), mi pareva chiaro il punto di partenza: la civiltà tradizionale alpina era finita. Se si aveva il coraggio di partire da quel punto, tutt’altro che scontato dopo decenni di letture acritiche e agiografiche, restavano tre possibilità per le Alpi: o tornavano a vivere in forme nuove e da inventare, oppure erano destinate a diventare il museo di se stesse o, peggio, la periferia della città.

La terza via

Le ultime due strade erano state rovinosamente percorse negli ultimi decenni del Novecento, al punto che i montanari sembravano ormai disposti a recitare la parte del “buon selvaggio” al tempo di internet, o viceversa si erano adeguati a fare i camerieri del modello consumistico in improbabili suburbi d’alta quota. La terza via era assai meno evidente delle altre due, e tutta da sperimentare, anche se la Convenzione delle Alpi aveva indicato il cammino: la via dello sviluppo sostenibile, cioè del limite, un presupposto fondamentale se si prova a guardare le Alpi come luogo da rinnovare e salvaguardare in forme vive, non museali.

Non si tratta di tornare al vecchio modello autarchico alpino, che probabilmente non è mai stato tale, ma di progettare una metropoli che sappia incorporare anche la montagna, esportando in basso i principi virtuosi delle abilità alpine e non esportando nelle valli le degenerazioni fallimentari della civiltà urbana. Turismo dolce e agricoltura pulita, “sweet and slow”, sono l’unico futuro possibile per le alte terre.

È il momento di superare il concetto novecentesco della conquista “no-limits”. Di fronte alla crisi ecologica mondiale, è ora che a partire dalle montagne, terre fragili, si riconosca il valore del limite. Con grande lungimiranza l’abbé Gorret, prete ribelle valdostano, scriveva alla fine dell’Ottocento: «Un viaggiatore che parta per la montagna lo fa perché cerca la montagna, e credo che rimarrebbe assai contrariato se vi ritrovasse la città che ha appena lasciato». Il prete aveva già capito che non si può proporre al turista una copia (bella o brutta che sia) del suo stesso mondo, cioè della città.

La montagna di domani non è più il “paradiso perduto” delle antiche genti walser, un luogo esotico nel tempo e nello spazio, e neppure la proiezione romantica che contrapponeva la purezza delle vette alla corruzione del piano. L’altrove sta qui e ora, nel rovescio di questo nostro stesso mondo, in una proposta contemporanea che non deriva dalla distanza o dall’irraggiungibilità, ma da una vicinanza di tempo e spazio che è proposta alternativa perché ridà senso ai valori tritati dal consumismo: la lentezza, l’immaterialità, il silenzio, la vita comunitaria, i ritmi e i limiti naturali.

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