La natura guarisce: ospedali più verdi

C’è un’antica verità che la modernità ha dimenticato e che la scienza, oggi, torna a riconoscere: la natura guarisce.

Ne erano convinti già i medici vittoriani, che prescrivevano “l’aria di campagna” come rimedio per angosce e disturbi vari quando la medicina ancora non conosceva i neurotrasmettitori, ma intuiva la forza dei paesaggi. Sapevano, empiricamente, che la luce che filtra tra gli alberi, il suono dell’acqua o il profumo della terra potevano restituire equilibrio al corpo e pace alla mente.

Oggi, dopo oltre un secolo di urbanizzazione, quel sapere ritorna corroborato dalle evidenze: centinaia di studi scientifici, milioni di dati, ricerche trasversali che confermano come l’esposizione regolare agli spazi verdi e blu — boschi, fiumi, laghi, giardini — abbia effetti tangibili sulla salute fisica e mentale.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha incluso gli spazi verdi tra le infrastrutture necessarie per la vita urbana del futuro. Il grande rapporto europeo “Urban Green Spaces and Health” del 2016, fondato su oltre quattrocento fonti scientifiche, ha tracciato una mappa chiara: il contatto con la natura migliora la funzione cognitiva, riduce l’incidenza di malattie cardiovascolari e diabete, mitiga lo stress cronico e perfino il rischio di mortalità precoce.

Tre anni più tardi, un altro documento dell’Oms avrebbe unito arte, cultura e salute in un’unica cornice di senso: il benessere come esperienza complessa, fatta di stimoli estetici, relazioni e armonia ambientale.

Medicina e filosofia

È in questa prospettiva che la medicina contemporanea torna, paradossalmente, a dialogare con la filosofia antica: la salus come equilibrio tra corpo, mente e mondo, come ordine - appunto - della vita.

L’intuizione moderna del potere terapeutico del paesaggio si deve all’architetto Roger Ulrich, che nel 1984 pubblicò su Science uno studio destinato a cambiare la storia della progettazione ospedaliera. Analizzando i dati di un reparto post-operatorio, Ulrich osservò che i pazienti che dalla finestra vedevano un piccolo boschetto guarivano prima, assumevano meno analgesici e avevano meno complicazioni rispetto a chi si trovava di fronte a un muro di mattoni.

Psicologia ambientale

Da quella ricerca nacque la Psicologia ambientale, disciplina che studia come l’ambiente influisca sulla mente e sui processi di guarigione.

Ulrich, insieme a Clare Cooper Marcus e Marni Barnes, aprì la strada al concetto di “healing garden”, giardino terapeutico in cui il verde non è decorazione, ma strumento di cura. Cinque minuti immersi in un giardino o anche solo la visione di una scena naturale bastano, dimostrano gli studi, a ridurre i livelli di cortisolo, ad abbassare la pressione arteriosa e a migliorare l’umore.

In Italia, una ricerca del gruppo Senes condotta nel 2018 con la rivista Acer censì circa 850 strutture sanitarie: soltanto 46, cioè il 5%, disponevano di un vero giardino terapeutico. Un numero esiguo, peraltro concentrato principalmente nelle regioni settentrionali, ma sufficiente a testimoniare un principio: il verde non è un ornamento, è una medicina.

Secondo Roger Ulrich e Laura Gilpin, la forza rigenerante della natura risiede nella nostra stessa storia evolutiva. La nostra specie ha vissuto per il 98% della sua storia in simbiosi con ambienti naturali. Solo da due secoli, con la rivoluzione industriale e la città, ci siamo progressivamente separati da essi. Le nostre sinapsi, la nostra percezione e la nostra emozione si sono modellate su ritmi vegetali e orizzonti aperti: per questo un paesaggio di alberi o d’acqua calma le amigdale e rallenta il battito cardiaco, mentre un ambiente chiuso o artificiale attiva i centri di allerta.

La natura, in altre parole, non ci è esterna: è la matrice da cui proveniamo e a cui inconsciamente tendiamo.

Questa consapevolezza, un tempo confinata al linguaggio poetico, è ormai parte delle politiche sanitarie di diversi Paesi. Dal 2018, nelle isole Shetland del Regno Unito, i medici di base possono prescrivere “dosi di natura”: camminate lungo la costa, “birdwatching”, giornate nei parchi. L’iniziativa, sostenuta dal National Health Service, nasce dall’evidenza che la natura agisce come un farmaco privo di effetti collaterali, ma ricco di benefici: serenità, movimento, socialità.

Allo stesso modo, la forest medicine giapponese - la medicina forestale - ha istituzionalizzato lo “Shinrin-yoku”, il “bagno nella foresta”, nato negli anni Ottanta per contrastare lo stress da superlavoro (“karoshi”). Qui la terapia consiste nel sostare nel bosco, respirarne gli aromi, ascoltarne il silenzio. Gli studi condotti dal 2004 in poi mostrano risultati sorprendenti: incremento delle cellule immunitarie NK, riduzione di adrenalina e cortisolo, miglioramento del sonno, aumento della serotonina e dell’ossitocina. In Giappone, le foreste terapeutiche sono ormai considerate patrimonio sanitario nazionale.

Il lockdown del 2020 ha reso evidente ciò che forse abbiamo dato troppo a lungo per scontato: la privazione della natura pesa sulla psiche e sul corpo. Quando, dopo mesi, abbiamo potuto tornare a camminare nei parchi o nei sentieri, la sensazione di sollievo è stata universale e commovente.

Abbiamo riscoperto, in quell’abbraccio verde, un senso di appartenenza che la modernità aveva smarrito. Ritrovare la natura, in fondo, significa ritrovare noi stessi. E forse la medicina del futuro, quella che saprà unire neuroscienze e poesia, ecologia e compassione, non nascerà solo nei laboratori, ma anche nei parchi.

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