Ordine / Como città
Domenica 02 Novembre 2025
La pena di morte? Un errore sempre
Ancora applicata dalle superpotenze,ovvero in molti stati americani e in Cina, non funziona come deterrente. In Italia la battaglia per abolirla partì dal Lario nel 1865
Non è ammessa.
Puramente e semplicemente.
Questo dice, della pena di morte, la Costituzione della Repubblica, integrata, su questo punto essenziale di civiltà, nel 2007.
In quel momento l’Italia era alla testa della rivendicazione mondiale del rifiuto dell’assassinio di Stato.
La pena di morte è una forma di semplificazione per menti primitive.
Quando lo sviluppo dell’umanità non consente di affrontare la complessità del reale, un potere fondato sulla paura, accompagnando il bisogno di semplificazione di un popolo regredito (o fatto regredire) a una condizione primitiva, fa trapelare la “bontà” dell’uccisione come pena (o, più in generale, ipnotizza i semplici con l’”inasprimento delle pene”).
«Ci sono molti delitti estremamente odiosi che i ragazzi sono perfettamente capaci di commettere, e che in certe circostanze possono rappresentare per loro una forte tentazione. Perciò, benché il togliere la vita a un ragazzo possa rendere qualche odore di crudeltà, tuttavia, considerando che la punizione inflitta a questo ragazzo servirà a distogliere altri da simili reati, e considerando inoltre che se si risparmiasse la vita a questo ragazzo si otterrebbe probabilmente l’effetto contrario, la giustizia deve seguire il suo corso. Lo dobbiamo ai nostri cittadini». Questa è la giustificazione data da giudici ossequienti al potere, mettendo a morte in Inghilterra, nel 1748, William York, un bambino di dieci anni.
Nell’Italia pre- e postunitaria la storia dell’abolizione della pena di morte è stata un affascinante percorso di crescita dell’onore e del prestigio degli italiani.
La Toscana lo guida per due volte. L’Arciduca Leopoldo di Toscana annuncia la legge del 30 novembre 1786 con cui viene abolita nel Granducato la morte come pena, affermando, tra l’altro, la necessità di «correzione del reo figlio anche esso della società e dello Stato, della cui emenda non può mai disperarsi»; e che la necessaria «efficacia e moderazione» delle pene richiede di «valersi dei mezzi più efficaci col minor male possibile al reo».
La morte come pena ritorna in seguito (fu ristabilita «quando le passioni politiche prevalsero alla maturità dei tempi»): ma viene (stavolta per sempre) abolita in Toscana nel 1859.
Tempi maturi ma lenti furono quelli dell’Italia unita. Che fare? Estendere a tutta Italia le leggi di progresso della Toscana o reintrodurre la pena di morte anche lì?
Ci volle del tempo: il nuovo Codice penale che aboliva la pena di morte entrò in vigore il 1° gennaio 1890.
La petizione
Ma la vicenda parlamentare in cui si propone il tema abolizionista inizia addirittura nel 1865, ed è costellata di prese di posizione pubbliche, da quelle di accademici a quelle di semplici cittadini. Pasquale Stanislao Mancini, deputato abolizionista, cita tra le altre, la petizione proveniente da cinquemila donne lombarde; e quella, trasmessa dal deputato Enrico Scalini (eletto nel collegio di Appiano, che dal 1926 sarà Appiano Gentile) «firmata da circa cinquecento cittadini di Como, ed a capo di essi, con nobile atto di indipendenza, dal Tribunale intero di quella città».
Carlo Cattaneo combatte per questa soluzione e ricorda che «le oscene braccia del carnefice» suppliscono all’«impotenza delle leggi».
Parole adatte anche agli “inasprimenti” di oggi: poiché non riesco a prevenire (in concreto) i reati perché non so governare, per distrarre i cittadini mi invento pene (in astratto) più severe.
Non rinunciamo a citare una delle grida manzoniane, riportate nelle prime pagine dei “Promessi sposi”, in cui si minaccia «pena pecuniaria, pena corporale, relegatione, galera e fino alla morte».
L’Italia vive la sua conquista civile per trentacinque anni.
La criminalità non aumenta, la sicurezza non diminuisce (mai, storicamente, la pena di morte, minacciata o praticata, ha ridotto il tasso di criminalità e di violenza nella società: pene sconsiderate in eccesso producono comportamenti criminali sconsiderati in eccesso).
Ma il regime fascista affronta la questione della “sicurezza” anche reintroducendo la pena di morte.
La semplificazione dei messaggi è una delle caratteristiche strutturali dei regimi totalitari (e della strada che porta ai regimi totalitari). La Costituzione della Repubblica la limiterà invece alle leggi penali di guerra e la modifica del 2007, come abbiamo visto, la dichiarerà del tutto «inammissibile».
In senso diametrale rispetto alle forzate semplificazioni, è condivisa, tra gli esperti di sistema penale, l’ambizione a un «diritto penale minimo» in cui la pena - razionalmente prevista, effettivamente e rapidamente irrogata ed eseguita - sia il rimedio estremo alla lesione di beni individuali e collettivi rilevanti per la salvaguardia delle persone e la difesa della convivenza civile.
Scriveva Luigi Ferrajoli nel 2002: «Si contano ormai in migliaia le leggi penali nel nostro paese: leggi d’eccezione, d’emergenza, d’occasione, emanate all’insegna di una permanente emergenza e volte prevalentemente a esorcizzare i problemi con la loro valenza simbolica e propagandistica».
Eppure, anche ai giorni nostri, sulla scia del permanere di ordinamenti arretrati - come quello di molti degli Stati Uniti, della Cina, dell’Iran - che ancora l’ammettono, alcune menti deboli ne proclamano il valore taumaturgico: con il pericolo, per tutti noi e per la convivenza civile, insito nel rompere l’inammissibilità/innominabilità dell’assassinio di Stato.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
