L’eremo di San Donato, oscuro simbolo di Como

Domina la convalle da Garzola di sicuro dal 1400 e secondo alcune ipotesi fin all’epoca bizantina ma per il ministero, pur risultando un bene a rischio, è «di interesse culturale non verificato» e di conseguenza privo di vincoli e tutele

È un simbolo di Como da almeno seicento anni, eppure rimane uno degli edifici meno studiati e, addirittura, non è vincolato dalla Soprintendenza. L’origine dell’eremo di San Donato, adagiato su un promontorio roccioso a metà del monte di Brunate e visibile da buona parte della convalle, è ancora avvolta nell’oscurità e qui vogliamo cogliere l’occasione dell’apertura al pubblico in programma questa domenica - 23 luglio - per fare il punto sull’importanza storica, religiosa e artistica di questo ex convento, rimettendo in fila ricerche e testimonianze dei secoli passati per lanciare un appello agli studiosi di oggi affinché venga cancellata al più presto una lacuna ormai imperdonabile e anche potenzialmente pericolosa. Fa specie, infatti, trovare San Donato nella “carta del rischio” (in questo caso idrogeologico) sul sito del Ministro dei beni culturali, con la precisazione che non vi è “presenza di vincoli” a causa dell’ “interesse culturale non verificato”. Ora, per verificarlo, basta aprire qualche libro e camminare 10 minuti, quanti ne occorrono per raggiungerlo dall’accesso più comodo di Garzola Superiore.

L’unica monografia - “L’eremo di San Donato in Como” con testi di Gianni De Simoni, Maria Teresa Nizzoli e Luigi Cavadini - è stata stampata nel 1985, in occasione del 420° anniversario della consacrazione della chiesa “nuova”. Si tratta di un’edizione in 500 esemplari numerati, pubblicata da Filagrano di Forlì per iniziativa del numismatico Arturo Arcellaschi, allora proprietario della chiesa e di un paio degli appartamenti in cui è stata frazionata la proprietà negli anni Settanta del ’900. Sette di quelle copie si trovano nelle biblioteche del Comasco e dovrebbero essere sufficienti per accertare l’“interesse culturale” del sito.

In appendice al volume è riportato un estratto degli atti della visita pastorale compiuta da Feliciano Ninguarda tra il 1589 e il 1592. Il coraggioso vescovo, che per primo descrisse l’intera Diocesi di Como, trovò a San Donato, «piccolo monastero appartenente al Terz’Ordine Francescano», «10 frati, 6 sacerdoti, tre chierici e un converso». Della chiesa lo colpirono i due altari, «di cui il maggiore dedicato al patrono San Donato ed abbastanza elegante», «la sacrestia ben fornita di libri, calici e altre suppellettili», la«torre quadrata con due campane», «l’effigie di San Donato con dipinti al lati due Santi dell’Ordine» e, soprattutto, «la porta dirimpetto alla porta della sacrestia che conduce a una grotta che si estende sotto la montagna per circa venti passi, alla cui estremità c’è un piccolo altare con appesi degli ex voto, dove molti sono soliti entrare a pregare per devozione». Quella grotta era stata, attorno al 1460, il luogo di meditazione e penitenza del beato Geremia Lambertenghi.

Visitando almeno in parte la dozzina di appartamenti in cui è diviso oggi l’eremo, si riesce ancora a trovare tracce degli ambienti descritti da Ninguarda. «Il monastero - scriveva il vescovo - possiede un chiostro con due ali sostenute da pilastri, al posto delle quali tra poco saranno collocate delle colonne per ottenere maggiore eleganza. Nel chiostro c’è un refettorio, una cucina, un lavatoio, una legnaia, due camere ad uso degli ospiti, una grande sala, attraverso la quale si passa al refettorio, un dormitorio, una cantina che si trova sotto assieme ad una stalla; di sopra c’è il dormitorio con 13 celle per i frati; [...] dal dormitorio si apre un passaggio ad un orto abbastanza ampio cinto da un muro; intorno al monastero c’è anche una vigna cinta da una siepe».

Devozione popolare

Fu soprattutto l’affezione popolare a impressionare positivamente l’illustre visitatore: «Questa chiesa viene visitata con grande affluenza e devozione di popolo nel secondo e terzo giorno dopo Pasqua, nell’anniversario di San Donato che cade il 7 agosto e in altri periodi». L’eremo di Garzola è citato anche negli atti di una precedente visita pastorale, compiuta dai delegati del vescovo Gerardo Landriani nel 1444-1445, che lo indicarono tra le dipendenza del monastero benedettino di San Giuliano.

Un’altra fonte importante è il primo degli illustri storici comaschi, Benedetto Giovio, che in un componimento in versi del 1532 - “De tribus divis monticulis” - celebra tre dedicatari di chiese poste sui monti comensi, tra cui Donato. Nel descrivere l’afflusso di popolo da tutte le terre vicine, si sofferma su un rito particolare, che vi proponiamo nella traduzione dal latino dello storico ottocentesco Maurizio Monti: «Vi sciolgono il voto per le care / Vite dei figlioletti all’Orco tolte; / Mirabil voto e d’eccellenza rara / Tutto informato all’ armonia del culto! / Pane buffetto e rubicondo Bacco / E di sale un acervo al giusto peso, / Insiem librati dei bambin, che infermi / Tornar di rosea sanitade in grembo, / Sono i doni votivi, che gioiose / Offron le madri. A rilevar l’esatta / Corrispondenza vi sta sempre in bilico / Una immane bilancia, le cui braccia / Trenta piedi son lunghe...».

Si tratta del rito orientale della pesa dei bambini, legato al culto di Donato, vescovo di Arezzo martirizzato nel 362, che consiste nel donare ai frati una quantità di grano e altri alimenti pari al peso del bimbo per il quale si invoca la protezione del Santo. Sul culto di San Donato, diffuso prima dai bizantini e poi dai longobardi neoconvertiti, è stata fondata l’ipotesi di un’origine del romitorio altomedievale.

Ipotesi e documenti

Il 4 maggio 1946 Emilio Alfieri, allora proprietario unico dell’ex convento secolarizzato dal 1772, ospitò alcuni membri della Società Archeologica Comense proprio con lo scopo di investigare l’origine del cenobio. Emerse allora l’ipotesi di Gian Piero Bognetti, archeologo e studioso dei longobardi, messa nero su bianco in due articoli usciti nel 1946 sulla Rivista Archeologica Comense e nel 1949 su “Castalia”. Secondo lui «San Donato doveva far parte degli sbarramenti di difesa del nucleo isolato di resistenza bizantina contro l’invasione longobarda, dal 569 al 588», rientrando nel «sistema territoriale, dominato dal Baradello, che col nome di “Vallis Comensis” dovette fin dall’alto Medioevo costituire l’antemurale della città verso la pianura». Questa tesi troverebbe conferma, oltre che nel rito della pesa, «anche nella struttura delle volte di alcuni sotterranei e nella costruzione murale della parte meno elevata del campanile, sicuramente di grande antichità, con l’impronta ancora visibile delle finestre dell’antica cella campanaria limitate da un arco di tipo bizantino».

Se la “stagione longobarda” di San Donato resta, ad oggi, un’ipotesi non suffragata da prove schiaccianti, ciò che sappiamo per certo della storia dell’eremo è, di fatto, quello che già nel 1663 Primo Luigi Tatti scriveva negli “Annali sacri della città di Como”. «[nel 1435] i Padri del Terz’Ordine di S. Francesco [...] s’invaghirono di ottenere in vicinanza della Città qualche sito, e a quest’effetto inviarono a Como il Padre Cornelio da Piacenza. Questi [...] s’innamorò d’una solitudine situata a mezzo il monte di Brunate. Il luogo era della Badia di S. Giuliano e l’ottenne, ma con certe limitazioni, e dipendenze, che durarono fino all’anno 1458». Tatti dedica ampio spazio anche a Geremia Lambertenghi e al letto di 189 chiodi che, dopo la sua morte, fu restituito a San Donato e oggi si trova alla parrocchiale di Lora, che da San Donato dipese fino alla metà del XVII secolo, assieme a Camnago e Brunate. Quindi ci informa che «avevano i Padri del Terz’Ordine di S. Francesco ristorato il tempio antico» e il «quattro di Maggio [1565, monsignor Giovannantonio Volpi] solennemente lo consacrò».

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