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Domenica 20 Luglio 2025
Monviso, la scalata patriottica di Quintino Sella
Nel 1863 lo scienziato e ministro realizzò una spedizione in risposta agli inglesi e fondò il Cai. Questa, e molte altre storie, nel libro “Alpi” di Andrea Greci edito da Rizzoli Illustrati
Vi proponiamo uno stralcio dal libro “Alpi - Antologia delle grandi montagne italiane” (pp. 240, € 25) scritto da Andrea Greci per Rizzoli Illustrati e che comprende anche brevi testi di altri autori, come, in questo caso, Enrico Camanni
[Enrico Camanni] Ho incontrato la volpe in una notte di luglio, mentre salivo con la pila in mano verso il Rifugio Quintino Sella e la cresta del Monviso. Non vedevo la montagna ma la sentivo incombere nel buio, come un peso immenso sulla testa e sul cuore. Nel nero quasi assoluto, sprofondato nel cono d’ombra della luna, ho udito improvvisamente il pianto di un bambino, un richiamo straziante, la colonna di un film horror, e ho pensato a una disgrazia o un sortilegio. Una nascita non riuscita, un aborto notturno, una morte prematura. Invece era il verso della volpe nascosta tra le misteriose nebbie che annunciavano l’alba. Con il sole, il pianto sarebbe cessato e la caligine sarebbe scomparsa mostrando lo smagliante profilo del re di pietra, ma senza dubbio le nebbie sarebbero ricomparse a metà mattina a oscurare le cime e il cielo, come accade ogni sacrosanto giorno d’estate nelle valli del Monviso.
Per paradosso sono le nebbie a segnare le estati, perché d’inverno i vapori si dissolvono e ritornano con i giorni afosi e caldi, quando la cappa si alza dalla pianura e rapidamente inghiotte le montagne. Successe anche nel lontano agosto del 1863, nei caldissimi giorni in cui Sella e compagni salirono il Monviso per imporre la bandiera italiana. A Torino si registravano quasi trenta gradi di media tra il giorno e la notte, tuttavia nel cuore dell’estate l’ex ministro del Regno d’Italia Quintino Sella, il conte Paolo Ballada di Saint-Robert, suo fratello cavalier Giacinto e il barone Giovanni Barracco partirono alla volta della Valle Varaita, raggiunsero Casteldelfino, si spinsero oltre i boschi e i sentieri di Vallanta e scalarono la cima dal versante sud, alzando tardivamente la testa di fronte allo strapotere inglese sulle Alpi e siglando idealmente, ma anche materialmente, la fondazione del Club Alpino Italiano in risposta all’Alpine Club di Londra.
Fu anche una missione scientifica, come spiega il Sella usando le parole del mineralologo: «Le spaccature e le guglie, che frastagliano le tre costole del Monviso, sono d’ostacolo a che per esse si giunga alla vetta. […] Quindi è che nell’ingolfarsi tra queste orride gole spesso è poco sicuro il piede, che posa sopra rottami, che facilmente vi sfuggono sotto, e sovente non è ben salda la mano che si aggrappa a pareti, cui basta un lieve sforzo per staccarle dalla montagna. Non è quindi malagevole a capire come il Monviso sia per tanti secoli stato dichiarato inaccessibile anche dai più arditi montanari, che ne vivono a’ piedi...».
La cordata italiana
[Andrea Greci] 30 agosto 1861: gli alpinisti inglesi William Mathews e Frederick Jacomb, accompagnati dalle fortissime guide di Chamonix Jean-Baptiste Croz e Michel Croz, toccano per la prima volta la vetta del Monviso.
Il Regno d’Italia ha pochi mesi di vita e l’orgoglio patriottico risveglia gli animi degli alpinisti italiani. La perfetta piramide del Monviso è l’orizzonte visivo e il simbolo della capitale. Che sia stata raggiunta da una cordata di stranieri è quasi un affronto. Anche la prima ripetizione, il 4 luglio 1862, è a trazione inglese: stavolta è Francis Fox Tuckett a calcare la vetta. Con lui ci sono Peter Perrn di Zermat e ancora una volta Michel Croz. C’è anche una guida di Bobbio Pellice, Bartolomeo Peyrot (o Peyrotte). Non basta però, il Monviso deve essere salito da una cordata tutta italiana.
Il biellese Quintino Sella, scienziato, politico, alpinista, raccoglie intorno a sé un folto gruppo per tentare la salita. Ci sono i nobili cuneesi Paolo e Giacinto Ballada di Saint-Robert, il deputato calabrese Giuseppe Barracco, le guide locali Raimondo Gertoux, Giuseppe Bouduin, Giovan Battista Abbà. Alla fine, il 12 agosto 1863, la scalata ha successo e Quintino Sella esulta, come si legge nella famosa “Lettera” indirizzata a Bartolomeo Gastaldi: «Siamo riesciti; ed una comitiva d’Italiani è finalmente salita sul Monviso».
L’obiettivo è raggiunto e l’orgoglio patriottico è riscattato. L’alpinismo è figlio del suo tempo e nel XIX secolo le bandiere degli Stati devono “conquistare” anche le vette. La stessa lettera di Quintino Sella si conclude con alcune considerazioni e un’esortazione finale: «A Londra si è fatto un Club Alpino, cioè di persone che spendono qualche settimana dell’anno nel salire le Alpi, le nostre Alpi! [...] Anche a Vienna si è fatto un Alpenverein [...]. Ora non si potrebbe fare alcunché di simile da noi? Io crederei di sì».
In queste parole è racchiuso il seme generativo del Club Alpino Italiano. Lo statuto dell’associazione sarà sottoscritto al Castello del Valentino il 23 ottobre 1863, da una quarantina di soci, tra i quali Quintino Sella, Bartolomeo Gastaldi, Giovanni Barracco, Giovanni Piacentini, Giorgio Tommaso Cimino, Luigi Vaccarone, Bettino Ricasoli, Giovanni Battista Schiapparelli. Ma se le idee precedono e determinano gli atti, allora il Cai nasce tra le rocce malferme del Monviso circa due mesi prima.
Storie di alberi e boschi
Quando, parlando delle Alpi, utilizziamo i termini “selvaggio” o “incontaminato”, quasi sempre commettiamo, in perfetta buona fede, un grande errore storico. Le Alpi, salvo pochissime eccezioni, come i ghiacciai più isolati o le pareti più remote, sono uno straordinario esempio di paesaggio culturale, modellato nei millenni dalla coesistenza tra elementi naturali e attività umane.
Contrariamente a quanto sì è spesso portati a pensare, i boschi montani sono tra i primi e più fulgidi esempi di questa “costruzione” del paesaggio. I boschi sono stati quasi sempre governati, abbandonati, incoraggiati, distrutti, piantati, tagliati, bruciati, ricreati dall’uomo. In questo flusso di eventi, i boschi delle Alpi hanno visto nel corso dei millenni grandi trasformazioni. Tra queste quelle che riguardano le specie dominanti. Sul versante italiano della catena alpina, oggi il larice è l’indiscusso monarca a occidente e l’abete rosso, pur con tante difficoltà negli ultimi decenni, è il re incontrastato a oriente. Ma non è sempre stato così.
Alle pendici meridionali del Monviso, in Val Varaita, il Bosco dell’Alevé, ci riporta a un antico passato, quando il pino cembro o cirmolo (“Pinus cembra”) era molto più diffuso in tutte le Alpi e in queste valli addirittura dominante, come dimostrano sia le prove scientifiche sia le testimonianze letterarie. Ai cembri, infatti, si riferisce per esempio Virgilio nel canto X dell’Eneide, quando cita il Vesulus pinifer, il “Monviso ricco di pini”. Altrove il cembro è stato sistematicamente eliminato per far spazio al larice, che non danneggia l’erba sottostante e che quindi favorisce il pascolo, mantenendo comunque la funzione di far ombra agli animali.
[...] Il Bosco dell’Alevé è diventato un cosiddetto “bosco di protezione” e come tale preservato. Il suo nome deriva dal termine occitano “èlvou”, che significa proprio “pino cembro”. Il Bosco dell’Alevé [...] ci parla di un antico passato, quando questa pianta, proveniente dall’Asia settentrionale, è arrivata sulle Alpi all’epoca delle grandi glaciazioni Quaternarie, per poi confinarsi nella fascia tra i 1500 e i 2500 metri di quota quando il clima si è fatto più caldo. Una pianta paziente, il cirmolo, che non diventa adulto fino a 40 anni, ma che poi ne può vivere oltre 300. Vicino al Rifugio Bagnour, a circa 2100 metri di quota, si trova il “patriarca” dell’Alevé: lui di anni ne ha addirittura 600. Di pazienza, nella sua lunga vita, ne deve avere avuta tantissima.
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