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Domenica 24 Agosto 2025
Rileggere O’Connor per capire l’america
Scrittrice cattolica del Sud protestante nei suoi libri le radici profonde del Paese. A cento anni dalla nascita Romana Petri le dedica il romanzo “La ragazza di Savannah”: un ottimo viatico per scoprirne il valore
Da dove cominciare a parlare di Flannery O’Connor (1925-1964)? Da dove afferrare questa grande scrittrice e rimetterla al centro di nuove letture e interpretazioni? Da dove fare risuonare la sua capacità profetica di raccontare il suo tempo e insieme anticipare il nostro con tanta precisione? E soprattutto farci vedere l’America di oggi, le sue radici profonde, le sue contraddizioni irrisolte. Nata a Savannah, in Georgia, O’Connor è una scrittrice del Sud degli Stati Uniti, sono gli Stati della “Bible Belt”, a maggioranza protestante, sostenitori di un’America bianca, pronti a reinvestire gli sterminati campi di cotone in nuove economie.
Nell’anno del centenario della nascita, Romana Petri ci offre una risposta convincente a questa domanda con il suo nuovo romanzo, “La ragazza di Savannah” (Mondadori), dedicato a Flannery O’Connor e dove il lettore può scoprire un vero e proprio personaggio letterario, dal nome reinventato, Mary Flan, eppure fedele alla vicenda di O’Connor.
Realtà e immaginazione
Nel libro di Petri è tutto vero e insieme tutto falso, falso nel senso di riscritto, falso perché è un romanzo che indaga la verità profonda di questa scrittrice attraverso situazioni e dialoghi impastati con l’immaginazione. Petri lo scrive e lo dice a voce alta: «Nessuno ha mai scritto come lei. È un caso unico», ma era una donna e non tutti gli scrittori la apprezzavano anche se non sarebbero stati all’altezza neppure di portarle la colazione a letto. Petri la racconta e la reinventa ma su una cosa personaggio e scrittrice coincidono del tutto: era un genio, e le pagine del romanzo ci consentono di ascoltarne la voce e la rabbia di chi, pur avendo sempre avuto il tempo che le remava contro, è riuscita a vedere e raccontare non solo l’epoca in cui ha vissuto ma la nostra in controtempo.
La malattia ereditaria
Lei che della fascinazione per gli uccelli, per il volo, aveva popolato l’infanzia, dove tutto sempre ha inizio, dove tutto è possibile. Lei che dall’infanzia aveva ereditato il tempo dell’avventura, dell’esotico, del fantastico. Lei che parlava la lingua del padre con cui giocava, scherzava e che la incoraggiava sulla strada dell’espressione artistica. Lei che era una bambina felice e amata dai genitori, solitaria, introversa, con la testa piena di fantasie e la voglia di depositarle da qualche parte, di non sprecarle. Lei, che dopo la prematura morte del padre nel 1941 per lupus eritematoso, cerca di ricucire nel solo modo che ha imparato con lui: disegnando e scrivendo. Lei che a poco più di vent’anni mostrava il suo pensiero con una lucidità senza precedenti già nei suoi primi racconti della tesi di Master of Fine Arts dell’Iowa: “Il geranio”, “Il tacchino”, “La lince”. Lei che – dopo la residenza a Yaddo e i soggiorni a New York e nel Connecticut – avrebbe saputo nel 1951 del poco tempo da vivere che le sarebbe rimasto per la malattia ereditata dal padre. Lei che con la madre Regina decide di andare a vivere nella fattoria di famiglia, Andalusia, a quattro miglia da Milledgeville, un rifugio protetto: la messa in paese tutte le mattine, la scrittura per un paio di ore, le passeggiate con le stampelle nel giardino di pomeriggio circondata dai suoi 40 pavoni e altri animali. Lei che è rimasta fino alla morte chiusa in quella fattoria, a parte qualche rapido viaggio per le sue conferenze (andrà anche a Lourdes). Lei che ha saputo inventarsi storie, visioni, scritte con precisione chirurgica e capaci di mescolare l’ironia e l’affondo di lama nel cammino dei suoi personaggi verso la grazia o verso la dannazione. Lei che morta a 39 anni, avrebbe lasciato una trentina di racconti, due romanzi (“La saggezza nel sangue” e “Il cielo è dei violenti”), molte conferenze e tante lettere.
Che si legga “La ragazza di Savannah” di Romana Petri e poi si riprendano in mano i racconti e i romanzi o che si faccia il contrario, stiamo certi che nessuno di noi potrà più fare a meno di leggerla.
Dunque, scrittrice del Sud e scrittrice cattolica nel Sud protestante. Sono commistioni che fanno della scrittura di Flannery O’Connor un unicum, non è una scrittrice del Sud perché cattolica e non è una scrittrice cattolica perché del Sud. Nel mondo di O’Connor tutto può essere rovesciato o meglio tutto si complica nelle sue molteplici versioni. Uno sguardo obliquo, di sbieco, avere fede significa avere un occhio profetico sulla vita e sul mondo, l’occhio guercio della fede, perché l’occhio profetico vale molto di più dell’occhio sensibile, che rischia di trasformare la carità in ideologia del bene, e finisce sempre per condurre nelle camere a gas. L’occhio profetico vede il male e la sua dimensione grottesca, ma il grottesco appartiene anche al bene, che è tale solo nel suo compiersi. Anche il bene è in costante costruzione.
Il testo che Flannery O’Connor scrive come introduzione alla vita di Mary Ann (“A Memoir of Mary Ann”, 1961) è una dichiarazione di intenti straordinaria su cui vale la pena soffermarsi. Mary Ann è una bambina con il volto per metà deformato da una grave malattia incurabile, le suore domenicane della “Casa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso” di Atlanta, che si occuparono di lei dai suoi tre ai dodici anni quando morì, si erano rivolte a Flannery per scriverne la storia.
Le suore di Hawthorne
L’ordine delle suore era stato fondato da Rose, la figlia di Nathaniel Hawthorne, che aveva con questa sua scelta realizzato in qualche modo il desiderio espresso dal padre nel racconto “Our Old Home”: storia di un signore che, in visita in un ostello dei poveri, aveva accolto la richiesta di un bambino molto malato di essere preso in collo. Un gesto di salvezza per entrambi. Quel signore era Nathaniel Hawthorne. E Madre Alfonsa, la figlia Rose, nel fondare la “Hawthorne Dominican Sisters” dedicata ai malati di cancro, aveva realizzato qualcosa che riguardava anche suo padre, esorcizzare la paura che aveva avuto di avere “il ghiaccio nel sangue”.
Flannery O’Connor aggiunge, alla storia della Casa, il racconto, fatto da Madre Alfonsa, di Willie, un nipote della sua prima paziente. Willie si era rivelato un ragazzo difficile rubando e compiendo una serie di atti violenti. «È più dura sopportare i bambini cattivi piuttosto che quelli buoni, ma è più facile leggere di loro», così si era convinta di avere fatto bene a non accettare di scrivere la storia di Mary Ann, che avrebbe finito per avere un sapore edificante così lontano da lei, consigliando di farlo alle stesse suore. Era la primavera del 1960 e il primo di agosto il manoscritto le arriva, «incompiuto come il volto della bambina. Entrambi sembravano lasciati, come la creazione al settimo giorno, perché altri li finissero. Il lettore avrebbe dovuto fare qualcosa del racconto, come Mary Ann aveva fatto qualcosa del suo viso». Anche il bene ha bisogno di tempo.
«Io sarei stata capace soltanto di avere a che fare con un altro Willie», scrive O’Connor e continuerà a occuparsi di figli o nipoti disorientati o già inquilini del territorio del diavolo, di storpi, assassini, predicatori falliti, venditori di Bibbie, madri assillanti, nonne insopportabili a cui sarebbe stato meglio sparare ogni cinque minuti, un universo di diseredati e dannati, di freaks, e di aspirazioni impossibili che dialogano con il sacro e il suo mistero. Al centro di molti suoi testi la questione razziale (“Il negro artificiale”, “Punto Omega”) che, nel pieno dei movimenti che portarono alla fine della segregazione, è registrata con lucida ferocia.
Ma tutte, proprio tutte le sue storie – enigmatiche e crudeli – costringono il lettore a lavorare, a fare qualcosa riguardo alla propria esistenza, al senso ultimo della vita, alla grazia.
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