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Domenica 15 Giugno 2025
Se muore il dialetto di Carlo Porta
Giancarlo Consonni: «A 250 anni dalla nascita del grande poeta milanese si sta corrompendo persino l’italiano»
Duecentocinquant’anni fa, il 15 giugno 1775, nasceva a Milano Carlo Porta. È uno dei più grandi poeti della nostra letteratura e ha scritto straordinarie opere in dialetto milanese. Questo anniversario ci permette di tentare una riflessione sullo stato odierno della poesia in dialetto.
Lo facciamo con Giancarlo Consonni, che ha pubblicato grandi raccolte nel dialetto di Verderio Inferiore. Consonni è nato nel 1943 a Merate ed è vissuto per più di vent’anni a Verderio Inferiore; ha insegnato urbanistica al Politecnico di Milano, di cui oggi è professore emerito. Nasce come poeta dialettale e il dialetto usato è una lingua orale che è una delle tante versioni rurali del milanese; una lingua che è propria di quella Brianza estrema dove Consonni ha le sue più profonde radici.
In un contesto socio culturale in cui i dialetti stanno sparendo perché nessuno più li parla, succede la stessa cosa anche per la poesia dialettale?
Il problema, al di là dell’uso ormai minimale dei dialetti, riguarda la perdita di una lingua. La stagione di grande fervore della poesia dialettale è stata quella del dopoguerra con un’ulteriore fiammata negli anni ’80/’90. Il crollo di questi mondi è fondamentalmente ritrovabile in una motivazione storico antropologica. Oggi la poesia dialettale ha i morti come suo pubblico. Ti rivolgi a universi già molto precedenti agli anni ’80. Penso a poeti dialettali come Franco Loi, Raffaello Baldini, Tonino Guerra, per citarne alcuni; appartenevano già ad un mondo al passato. La poesia ha il suo teatro ideale nel nulla, ma suscita una presenza e questi poeti, così come la loro lingua, non ci sono più. Siamo di fronte alla corruzione della lingua, per cui il dialetto scompare per far posto all’italiano. Poi, ed è un’evoluzione di quest’ultimo periodo, c’è un degrado anche dell’italiano. Avanza la lingua inglese e c’è un processo di rimescolamento anche con altre lingue. Il dramma di fondo è la povertà della lingua italiana parlata e scritta. Le lingue orali come il dialetto, avevano una loro grande importanza.
La scuola cosa fa per preservare la nostra lingua?
Direi poco. Il discorso è complesso, ma vorrei citare solo la sparizione del tema. Era un’applicazione che aveva la sua funzione pedagogica. Si doveva costruire un’argomentazione, metter per iscritto un discorso ed era un modo di crescere attraverso la scrittura. La lingua è lo specchio di quello che siamo.
Giancarlo Consonni nasce come poeta dialettale con la prima raccolta “Viridarium” (Scheiwiller) del 1987. Come mai questa scelta?
Dopo le prime poesie scritte in italiano tra i quindici ed i diciotto anni, non ho più scritto per dodici anni. Poi ho cominciato a scrivere in una lingua che non parlavo da diverso tempo; da quando, nel 1967, mi ero stabilito a Milano. La prima poesia in milanese nasce da un duplice ricordo: una filastrocca (“Árcula bel’àrcula”) rivolta ai maggiolini e un guaito di dolore: la “voce”, appena percettibile, che i bambini del mio paese, e io con loro, con incredibile crudeltà usavano cavare alle piccole lucertole. Posso dire che la lingua mi è venuta a cercare ed io mi sono messo ad ascoltarla. Alla poesia non si comanda, dirige un qualcosa di misterioso e se sei pronto ad accoglierlo, se sai stare in ascolto, allora trovi un filone d’oro. In una società come la nostra che non vuole pensare, che rifugge le responsabilità, la poesia ha un ruolo notevole solo quando rappresenta una verifica intima e profonda della necessità della parola.
Lei ha dichiarato che le sue scuole sono state l’osteria, la stalla e il silenzio “conventuale”. Ce ne vuole parlare?
Mia mamma, per togliermi dall’osteria che gestiva, il pomeriggio mi lasciava all’asilo anche dopo l’orario consueto. Dalle suore, in quell’asilo della sera, ho ricevuto uno dei più bei doni: un certo modo di disporsi all’ascolto delle cose. Quei tardi pomeriggi, nella pace che seguiva all’assalto dei fanciulli, sono stati la mia educazione al silenzio.
Accanto al silenzio “conventuale” c’è stato il multicolore caos dell’osteria. Cos’è stato per lei questo luogo movimentato e colorito?
L’osteria coincideva con la mia casa, tutto, tranne la camera da letto, era a disposizione della gente. Spesso gli avventori giocavano a scopa in cucina. Era un continuo teatro che aveva come protagonisti tipi umani unici, che erano capaci di recite improvvisate. C’erano i racconti orali, storie di coscritti e di guerra, ma anche i silenzi tesi e gli improvvisi battibecchi tra giocatori di carte e, ancora, i ritmi serrati dei numeri della morra, urlati e pestati col pugno come a inculcarli nella memoria dei tavoli. Tra i tanti personaggi di questo mondo ricordo un impiegato della Stipel, la società dei telefoni di allora, che aveva il vizietto di origliare le telefonate altrui. Raccontava così storie improbabili che per noi erano una sorta di “Beautiful” ante litteram. Indimenticabile è poi il grande Nasàr che inventava filastrocche interminabili basate sull’uso della rima o su un rosario di espressioni che un estraneo avrebbe potuto scambiare per bestemmie che in realtà erano preghiere nella forma ironica e distaccata propria dell’anima popolare. Quando compariva in osteria, recitava a memoria, concentratissimo, come sull’attenti, l’appello dei commilitoni di un tempo: Abba, Abbiati, Acquati, Albini e via via in un lunghissimo elenco. Al cognome Motta, il suo, gli astanti, con mossa concordata, si guardavano con tono interrogativo. Seguivano pochi secondi di silenzio finché giungeva puntuale, la dirompente risposta: “Motta só mì, papagàl!”. I due modi di Nasàr sono quelli stessi della mia gente e della mia poesia: da un lato il ritmo disteso della filastrocca, della nenia, dall’altro la parola nuda, tellurica e insieme impastata di silenzio.
In questa sua educazione singolare, ma profonda, possiamo dire che ha imparato il valore della parola?
Certo. Oggi, in una società in cui esiste una ipertrofia della comunicazione, la parola è svilita, non ha più collegamento col mistero del mondo. Assistiamo così alla schizofrenia di una comunità che non ha un filo nel rapporto tra le generazioni.
Come è avvenuto il passaggio dalla poesia in dialetto a quella in italiano?
Non l’ho deciso a tavolino, nel senso che non è stata una scelta dettata solo dalla ragione. Il dialetto è la lingua delle cose per cui non riesci a filosofeggiare. La sua potenza è l’immediatezza che vive attraverso la figura ed il suono. La mia poesia dialettale acquista il carattere di una sorta di oratorio, è il rito funebre di un universo che non c’è più. Ad un certo punto, poi, mi sono ritrovato nel fascino della parlata toscana di mia madre. E’ stato un bilinguismo a cui ho attinto molto. Sul lungo periodo capisci le potenzialità di qualunque universo linguistico. La lingua non può tutto, ma ha grandi potenzialità. L’italiano è un altro percorso, che dura ancora oggi per fortuna.
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