The Beatles, il marchio conta
più dell’“Ai”

Appunti a margine del successo di “Now and then”. La tecnologia e un piccolo aiuto degli ex compagni potrebbero restituirci il “Beatle perduto” Sutcliffe. Nessuno ascolta il disco più bello di McCartney solo perché lo ha pubblicato a nome The Fireman

Non sarà la migliore delle canzoni dei Beatles (e neppure la peggiore, però), ma intanto è diventata il loro diciottesimo singolo numero uno nelle charts britanniche. Un risultato che i quattro ex ragazzi di Liverpool non raggiungevano dal 1969.

“Now and then” è stata innanzi tutto una notevole operazione di marketing, che però poggia le basi su due “dati concreti” su cui vale la pena di fare qualche ragionamento: il marchio Beatles, che a più di cinquant’anni dallo scioglimento del gruppo continua a essere stampato anche su cuscini e tazze da tè venduti in tutto il mondo, e MAL, acronimo di “machine assisted learning”, la macchina creata da un team di ricercatori inglese e dell’Università di Chicago per restaurare il suono e così chiamata in omaggio ad Hal 9000, il supercomputer di “2001 Odissea nello spazio” e al defunto road manager degli stessi Fab Four, Mal Evans.

Per quanto riguarda il marchio, non si può negare che i Beatles, tra i più grandi innovatori del Novecento nel campo dell’arte (non solo) musicale e della comunicazione, siano una pietra angolare anche della civiltà dell’immagine e del consumismo. La forza del loro marchio, per fortuna a lungo sostenuta da una qualità che nel settore di competenza non ha per ora avuto pari, è tale da incantare i fan, che pure nella maggior parte dei casi non sono più ragazzini ingenui, e da ritorcersi, in qualche occasione, persino contro gli stessi ex Beatles. La dimostrazione più clamorosa di quanto conti il marchio è il miglior album di Paul McCartney - almeno a pari merito con il suo best seller “Band on the run” - che nessuno, o quasi, ascolta. Per un motivo molto semplice: è stato pubblicato a nome The Fireman, duo composto da “Macca” e da Youth, produttore ed ex bassista dei Killing Joke. Pur essendo a portata di mano su Spotify e sulle altre piattaforme online, come tutta la produzione dei Beatles prima e dopo lo scioglimento del gruppo, viene intercettato solo da chi è abituato ad esercitare un livello medio-alto di “curiositas”.

Un disco da scoprire

L’album, sia detto per i 33,8 (su 34) milioni di ascoltatori mensili dei Beatles e 13,4 (su 13,6) di McCartney (dati Spotify), che non lo hanno ancora “scoperto”, si intitola “Electric arguments” ( citazione di una poesia di Allen Ginsberg): 13 brani - più uno fantasma, come nella migliore tradizione - che spaziano dalle sonorità jazzate all’hard rock, dall’elettronica al pop-rock più orecchiabile e scintillante. Insomma, una qualità media e una varietà che ricordano il celebre “Album bianco”, eppure non è mai decollato davvero, perché i “The Fireman” sono l’antitesi del marchio di impareggiabile successo rappresentato dai Beatles. Nei primi due album - “Strawberries Oceans Ships Forest” (1993) e “Rushes” (1998) - McCartney e Youth avevano giocato a produrre una musica ambient irriconoscibile e irriconducibile al loro sound abituale, evitando accuratamente di indicare i propri nomi persino nei crediti dei brani. In “Electric arguments” invece hanno firmato le canzoni (tutte di McCartney peraltro) e la produzione, ma evidentemente è stato troppo poco e troppo tardi per recuperare l’attenzione del pubblico, sempre più distratto e superficiale. In sintesi, “Electric arguments”, che volendo McCartney avrebbe potuto anche firmare con il suo nome visto l’apporto limitato di Youth, passerà alla storia più che altro come un esperimento sociologico, una prova schiacciante che il nome dell’autore, oggi, conta mediamente più della qualità del prodotto.

Questioni di “autenticità”

“Nulla di nuovo sul fronte Occidentale”, potrebbe commentare qualcuno parafrasando Erich Maria Remarque. Vero, il marchio è tutto, o quasi, da ben prima che la Ferragni ci sbattesse il concetto sotto gli occhi ogni giorno con inesorabile spudoratezza, e sarà difficilissimo, se non impossibile, invertire la tendenza. Passiamo, allora, al dato più nuovo, e incoraggiante, emerso dalla pubblicazione di quella che è stata annunciata come “l’ultima canzone dei Beatles”, ovvero il fatto che potrebbe anche non esserlo, proprio perché la tecnologia che l’ha resa possibile si potrebbe applicare anche ad altre canzoni “inedite” dei Fab Four, come ha spiegato Peter Jackson. Il regista neozelandese, com’è noto, aveva tenuto a battesimo MAL nel documentario “Get back”, che due anni fa ci aveva restituito le leggendarie session del ’69, tra i Twickenham Film Studios e la Apple, con video in 4k e suono così pulito che sembrava di essere lì con John, Paul, George, Ringo, mogli, fidanzate e amici vari.

C’è un dibattito in corso su questa tecnologia, che coinvolge tanto le riviste musicali quanto quelle scientifiche: fin dove è lecito spingersi nel “ripulire” il suono di un musicista o la voce di un cantante? Dove finisce la pura rimozione si rumori di fondo e comincia invece una ricostruzione fatta con artifici, come i campionamenti di quella stessa voce presa da altre canzoni, che rischiano di rendere non del tutto autentica quella che dovrebbe essere un’opera d’arte unica e irripetibile? Querelle simili si sono verificate in passato nel campo delle arti visive e dell’architettura: un conto è preservare e consolidare ciò che resta del Partenone, ben altro sarebbe ricostruire le parti mancanti, pur utilizzando materiali del tutto fedeli agli originali.

Però la possibilità di restituire i “colori primigeni” a tante canzoni, così come si è fatto per alcuni capolavori della pittura, è estremamente affascinante e potrebbe servire non solo per recuperare brani o interi concerti registrati approssimativamente a suo tempo, ma anche per restituire lucentezza ai grandi padri della “musica popolare” quelli che sono emersi prima degli anni Cinquanta. Gente come Robert Johnson, Hank Williams e Woody Guthrie. E si potrebbero rendere “ascoltabili” anche le prime rudimentali prove dei Quarryman e dei Silver Beatles, ovvero i Beatles prima di diventare quelli di “Love me do” e di tutto ciò che è seguito.

Sicuramente molti appassionati, dopo aver ascoltato (e soprattutto visto il video di) “Now and Then”, avranno vagheggiato di vedere reunion ritenute fino a ieri impossibili o di ascoltare canzoni che si pensavano perdute o compromesse per sempre dalla scarsa qualità di registrazioni artigianali. Il mio personale sogno riguarda proprio i Beatles delle origini: sentirli e vederli eseguire la cover di “Love me tender” con Stuart Sutcliffe come frontman. Nel 2011, infatti, è misteriosamente riapparsa una registrazione della canzone che l’originario bassista della band, nonché pittore di grande talento morto a soli 21 anni nel 1962, era solito interpretare nei live ad Amburgo, la città dove scelse di rimanere abbandonando il gruppo, per stare con la fotografa Astrid Kirchherr. La società che rappresenta Sutcliffe, presieduta dalla sorella, l’ha pubblicata giurando sull’autenticità della voce e aggiungendo una base musicale di pessima qualità. La trovate su tutte le piattaforme digitali, se siete curiosi. Provate a immaginarla sottoposta allo stesso trattamento di “Now and then”. Un “piccolo aiuto” degli antichi sodali renderebbe giustizia al più esistenzialista, e sfortunato, ex “Beetle” (scritto proprio così: fu Sutcliffe a proporre al gruppo di chiamarsi “scarafaggi”, e Lennon rilanciò proponendo il gioco di parole “Beatles”).

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