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Sabato 25 Ottobre 2025
Vecchietti superstar: creatività senza fine
Ci sono rockstar e divi del cinema che tra gli ottanta e i cento anni continuano a sprizzare energia e a inventare cose nuove. Da Paul McCartney a Clint Eastwood, la lezione di guardare sempre avanti. Un numero de “L’Ordine” dedicato alla longevità
Nel 1994 Kurt Cobain si toglieva la vita a 27 anni, lasciando una lettera in cui, tra le altre cose, citava un celebre verso della canzone di Neil Young “Hey Hey, My My (Into the Black)” contenuta nell’album “Rust Never Sleeps” del 1979: “It’s better to burn out than to fade away” (“è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”). Neil Young, alla soglia degli ottant’anni, che compirà tra pochi giorni (il 12 novembre), è in tour accompagnato da una band di trentacinquenni, i Chrome Hearts, che saltano come grilli, ma fanno fatica a stare dietro ai suoi assoli di chitarra, più energici e torrenziali che mai.
Il cantautore canadese è probabilmente il più in forma - sotto il profilo della tenuta vocale, strumentale e creativa - dei rocker degli anni Sessanta (e primi Settanta), che a dispetto di vite non sempre regolatissime, stanno dimostrando una longevità artistica probabilmente impensabile per loro medesimi alcuni decenni fa.
Basti pensare a Paul McCartney che in uno dei dischi più celebri dei Beatles, “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (1967), cantava “When I’m Sixty-Four” (“Quando avrò sessantaquattro anni”), brano in realtà scritto molto prima (nel ’56) e si chiedeva: “Quando invecchierò e perderò i capelli / Tra molti anni / Mi manderai ancora biglietti d’amore / Auguri di compleanno, una bottiglia di vino?”. E poi si immaginava: “Domenica mattina andare a fare un giro / Lavorare nel giardino, scavare le erbacce / Chi potrebbe chiedere di più?” e “Ogni estate possiamo noleggiare un cottage / Nell’Isola di Wight, se non è troppo cara / Dobbiamo risparmiare e risparmiare...”. Oggi, che di anni ne ha 83, non è solo il primo cantautore ad essere entrato nell’elite finanziaria di quelli che hanno un patrimonio superiore al milione di dollari, ma da un triennio è impegnato in una tournée mondiale, in cui suona per oltre due ore e mezza ogni sera, si destreggia tra cinque strumenti diversi e quasi settant’anni di canzoni (da “In spite of all the danger”, prima incisione del 1956 con i futuri “Fab four”) e chiude ogni concerto con la promessa: “See you next time” (“Ci vediamo la prossima volta”).
“Help!” sessant’anni dopo
La presenza scenica è ancora notevole, come lo è pure la capacità di tenere assieme il gruppo e le decine di migliaia di persone che riempiono gli stadi per vederlo. Certo la voce non è più quella di quando nel 1965 incise “Yesterday”, e pareva provenire dalle sfere celesti, ma è comunque invecchiata meglio dell’unico altro “fondatore” di pari livello della musica cosiddetta leggera, Bob Dylan, che tuttavia, puntando su altre qualità, dalla scrittura al “vizio” di riarrangiare i brani fino a farli diventare a volte quasi irriconoscibili, è ancora impegnato nel suo “never ending tour” e, nel frattempo, ha affinato altri talenti, come quello per la pittura e quello per la scultura, traendone sempre maggiori soddisfazioni. Tornando a McCartney viene, ovviamente, da domandarsi se non sia un caso che “Yesterday” non faccia più parte dei 35 brani che in media compongono la scaletta dei suoi concerti e invece nell’ultima parte del tour attualmente in corso in Nord America abbia aperto con “Help!”, pezzo che nello stesso omonimo album era cantato da John Lennon. Fa un certo effetto sentirlo intonare oggi un testo scritto dall’amico sessant’anni fa: “When I was younger, so much younger than today, / I never needed anybody’s help in any way. / But now these days are gone, I’m not so self assured, / Now I find I’ve changed my mind and opened up the doors. / Help me if you can, I’m feeling down / And I do appreciate you being round. / Help me, get my feet back on the ground, / Won’t you please, please help me” (“Quando ero più giovane, molto più giovane di adesso, / Non avevo mai bisogno dell’aiuto di nessuno in nessun modo, / Ma ora quei giorni sono andati e non sono così sicuro di me, / Ora scopro che le mie idee sono cambiate, ho aperto le porte. / Aiutami se puoi, mi sento giù, / E apprezzo molto che tu sia qui, / Aiutami a tornare coi piedi per terra, / Non vuoi per favore, per favore aiutarmi?”.
Anche i grandi che hanno la bravura e la fortuna di essere ancora sulla breccia, devono sapersi adattare ai cambiamenti, e agli acciacchi, che la vecchiaia porta con sé. Per esempio, Keith Richards dei Rolling Stones ha raccontato in alcune intervista di aver dovuto modificare il modo di suonare la chitarra per colpa dell’artrite. L’elenco degli ultraottantenni del pop-rock più che mai determinati a “Non arrendersi” (per citare un celebre titolo del giovanotto Bruce Springsteen, appena 79enne) è davvero lungo. Più di tutti merita una citazione, e può essere un buon esempio per cercare di comprendere come cambiano le fasi della “crescita personale” con le nuove aspettative di vita, il “fuorilegge” (rispetto alle leggi del country, che da sempre contamina con il folk e con il rock) Willie Nelson. A 92 anni è ancora attivo e propositivo. Lo scorso settembre ha festeggiato sul palco i 40 anni del Farm Aid, il concertone a favore degli agricoltori americani di cui è da sempre tra i promotori, con la sua inseparabile “Trigger”, chitarra ormai consunta da cui cava ancora note iconiche, come la sua davvero invidiabile - anche da parte di esimi colleghi più giovani - voce. Classe 1933 - significa che è nato due anni prima di Elvis, per intenderci - Nelson è maturato artisticamente con un certa lentezza: le canzoni migliori che gli hanno dato il successo sono arrivate solo alla metà degli anni Settanta. E ora, mentre sta per pubblicare il suo 104° album in uscita il 7 novembre, non manca mai di esorcizzare con ironia “sorella morte”, cantando “Roll Me Up and Smoke Me When I Die” (“Arrotolami e fumami quando muoio”), incisa nel 2012, quando di anni ne aveva 79.
Ironia e curiosità - ad esempio verso l’opera degli altri grandi autori americani di cui sta esplorando il canzoniere negli ultimi dischi - sono due qualità che sicuramente contribuiscono a spiegare la longevità artistica di Willie Nelson. E che possiamo cercare di “copiare”. Le stesse, in una variante meno caustica, le esibisce Dick Van Dyke, cento anni il prossimo 13 dicembre, ballando e cantando nel video di “All My Love” dei Coldplay.
A proposito di “elisir di lunga vita”, uno spunto interessante viene da un altro grande vecchio che c’entra anche con la musica, perché ha inciso quattro album e composto diverse colonne sonore, ma è un “mostro sacro” del cinema. E lo è soprattutto da quando, allo scoccare dei 75 anni, ha vinto quattro Oscar per “ Million Dollar Baby” lasciandosi definitivamente alle spalle la battuta, peraltro con intenzioni positive, di Sergio Leone sulla sua maschera attoriale: «Aveva solo due espressoni: una con il cappello e l’altra senza cappello».
Ora, che di anni ne ha 95, pare stia lavorando all’ennesimo film e il suo motto è diventato una canzone del cantante country Roby Keith: “Don’t Let the Old Man In” (“Non lasciare entrare il vecchio”). Eastwood lo ha spiegato così: «Bisogna voltare le spalle al vecchio mormoratore, pieno di rabbia e lamentele, privo di coraggio, che si rifiuta di credere che la vecchiaia possa essere creativa, decisa, piena di luce e protezione. Invecchiare può essere piacevole, e persino divertente, se sai come utilizzare il tempo, se sei soddisfatto di ciò che hai realizzato e se continui a mantenere l’illusione».
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