Il mistero dell’autismo nei fratelli minori: un test anticipa la diagnosi

Lo studio La probabilità dei disturbi è più alta nei secondogeniti di chi già ne soffre. All’istituto Eugenio Medea è stato realizzato un monitoraggio focalizzato sui primi 36 mesi

I fratellini dei bambini autistici hanno più probabilità di manifestare lo stesso disturbo, ma già a 12 mesi gli specialisti riescono a fare una diagnosi precoce.

La prevalenza dei disturbi dello spettro dell’autismo nel nostro territorio sulla popolazione generale interessa circa un bambino dell’età evolutiva ogni 77, colpiti quattro volte di più i maschi. Questa stima nei fratelli dei bambini autistici arriva a uno ogni cinque.

Bisogna individuare il prima possibile eventuali indicatori

«Sì, è un dato assodato in letteratura – spiega Valentina Riva, ricercatrice dell’istituto di ricerca Eugenio Medea in forze a La Nostra Famiglia di Bosisio Parini – e dunque il nostro impegno si è concentrato proprio sui fratellini volendo monitorare la loro crescita. La sfida è individuare il prima possibile eventuali indicatori, per capire subito se il piccolo riceverà o meno una diagnosi d’autismo. In media la diagnosi arriva a tre, anche a quattro anni, piuttosto tardi. Il nostro team quindi si è focalizzato sui primi 36 mesi di vita, entro i due anni. Con test già a 12 e a 18 mesi. L’obiettivo è semplice: prima si arriva a una diagnosi e prima c’è modo di lavorare sul disturbo superando le future difficoltà». Al contrario più tardi si arriva meno margini rimangono per raggiungere migliori traguardi.

Riva lavora nel BabyLab de La Nostra Famiglia, i cui studi sono stati premiati dalla Fondazione italiana per l’autismo, ente che ha finanziato altri progetti di ricerca in partenza da settembre. «Già a pochi mesi di vita esistono dei marcatori di rischio precoci che sono predittivi di successive difficoltà sociali e comunicative – dice Riva -. Tuttavia dobbiamo ancora indagare sull’evoluzione di questi indicatori e valutare se esista una modificazione a livello di circuiti neurali a seguito di un percorso di intervento precoce. La ricerca nell’ambito dell’intervento precoce sul bambino ci consentirà di studiare dei modelli di intervento altamente individualizzati e di fornire maggiori risposte su come e perché alcuni trattamenti sono più efficaci per alcuni bambini rispetto ad altri». Ecco quali tipi di test vengono proposti.

Una patologia multifattoriale

«Durante i nostri test sottoponiamo i piccoli in sostanza ad un elettroencefalogramma – spiega sempre Riva – presentando ai bambini degli stimoli visivi e uditivi. Capiamo così se le risposte cerebrali sono diverse rispetto allo sviluppo tipico. I soggetti con possibile diagnosi d’autismo infatti non riconoscono alcune incongruenze. Per esempio, davanti a un viso che parla, con le labbra e le parole che non sono sincronizzate, che vanno per conto loro, i fratellini dei bimbi con autismo spesso non si accorgono di nulla, non reagiscono. Mentre invece gli altri bambini in genere danno una risposta, mostrano un interrogativo e si pongono un dubbio almeno a livello cerebrale, con un rilevamento sottolineato dall’elettroencefalogramma».

Questi test offrono un riscontro prezioso agli specialisti, perché i deficit con una frequenza molto stretta si associano allo sviluppo linguistico e comunicativo successivo. Con possibili difficoltà sulle quali è bene intervenire in fretta. Ma perché i secondogeniti hanno più probabilità di soffrire dello stesso disturbo dei loro fratelli più grandi?

«L’idea è che i disturbi del neuro sviluppo come l’autismo abbiano una base neurobiologica e genetica – spiega l’esperta –, c’è qualcosa di ereditario che corre, una familiarità forte. Poi ci sono anche altri effetti, ambientali, socio demografici o ancora di legame e vicinanza. Ha un peso il parto, la gestazione. Di sicuro è una patologia multifattoriale, ma la genetica conta molto. Non esiste comunque una sola causa, un solo fattore. La letteratura è ancora molto controversa».

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