Grillo dittatore
sfortunato e dimezzato

L’ossessione costante dei dittatori è quella di essere traditi. Hitler e Stalin hanno vissuto tutti gli anni del loro potere con l’assillo permanente, sino ai limiti della paranoia, di un complotto contro di loro, di un piano volto a metterne in dubbio la supremazia assoluta, il controllo totale dell’organizzazione.

L’esistenza di una congiura interna, di una o più “serpi in seno”, rivela, agli occhi dei despoti e di coloro che rimangono loro fedeli, che gli elementi maligni sono sempre all’opera, che la purezza dell’ideale è perennemente messa in pericolo dalla meschina malvagità umana. E che, per salvare il movimento, è indispensabile serrarne i ranghi attorno alla guida suprema. Ogni volta di più, in modo sempre più rigido e assoluto. Quello interno è, per ogni dittatore, il più subdolo e insieme il più necessario dei nemici: è colui che ha conosciuto la verità, ma che ha deciso di distanziarsene. Nella narrazione totalitaria, l’ha fatto per viltà, o per perseguire qualche sordido interesse personale, perché moralmente ignobile oppure corrotto e venduto. Il suo smascheramento ristabilisce, dentro il gruppo, l’ordine infranto e accresce l’amore dei sudditi per il condottiero. Nelle dittature carismatiche deve brillare una sola luce: quella della guida suprema. I colonnelli, i ranghi intermedi, devono rassegnarsi ad essere meri strumenti della volontà del leader, accontentarsi di qualche briciola di potere, di brillare di luce riflessa, di essere ammirati esclusivamente per la loro prossimità con il tiranno. E di cospirare perché sia qualcun altro ad essere, nella prossima epurazione, l’oggetto degli strali del duce, della sua rabbia distruttiva.

Nel suo piccolo, Beppe Grillo è un dittatore. Ha fatto espellere dal M5S, senza apparente motivo, quattro senatori. Altri li aveva già epurati. E altri ne epurerà presto.È però un dittatore sfortunato Beppe Grillo, perché è nato nell’epoca sbagliata, in un tempo che lo condanna a rimanere un dittatore dimezzato, un “paradittatore”, un “conducator de noaltri”.

A differenza dei dittatori veri, il comico genovese è infatti costretto a convivere, ovviamente senza amarla, come ha confessato nell’incontro con Renzi, con la democrazia, con l’esistenza di una stampa libera (che lui detesta), di una magistratura indipendente e di un concerto europeo e mondiale del quale l’Italia è parte integrante, che non tollererebbe una violazione seria delle norme e dei principi democratici. Grillo lo sa e per questo preme, al pari di altri capi populisti, per l’attenuazione o la rescissione dei vincoli sovranazionali, per l’isolamento dell’Italia dal resto del continente. Perché in quel modo potrebbe, nel caso in cui entrasse nella stanza dei bottoni, godere di maggiori libertà di manovra, manomettere più facilmente l’impianto democratico, asservire il Paese al suo libero imperio.

Un dittatore carismatico come lui vive male in un regime democratico nel quale la regola è quella del compromesso, della mediazione, della ragionevolezza. Tutte qualità che non gli appartengono: il suo refrain è sempre il medesimo: “tutto il potere al mio movimento”, che poi significa “tutto il potere a me”. Vittoria o morte. Una linea che lo condanna alla totale irrilevanza nell’attività parlamentare, all’isolamento assoluto nella speranza di una vittoria altrettanto assoluta, della palingenesi rivoluzionaria, dell’avvento del paradiso in terra. È a questo radicalismo antidemocratico che si erano timidamente opposti i deputati espulsi. Arrivati nel Senato della Repubblica da “nominati” e senza nessuna esperienza pregressa, hanno forse cominciato a maturare il desiderio di fare davvero politica nel modo in cui la si può fare in una democrazia: discutendo con i colleghi, informandosi, accumulando conoscenze e competenze, maturando giudizi autonomi. Probabile che abbiano scoperto per la politica democratica una vocazione autentica. Quella di cui avremmo tanto bisogno in tempi così difficili e precari.

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