Il caso kyenge
spia della crisi leghista

Ci sono polemiche sulle quali si vorrebbe stendere un pietoso silenzio, tanto sono insulse e in realtà strumentali ad altri fini. Quella innescata dalla decisione del quotidiano della Lega di pubblicare l’agenda (per altro pubblica) del ministro per l’Integrazione Cécile Kyenge fa parte certamente di questa categorie di polemiche.

L’obiettivo, dichiarato a mezza bocca, da chi ha avuto l’idea, è quella di sollecitare i militanti leghisti a contestare il ministro in tutte le occasioni pubbliche: una contestazione che riguarda direttamente la persona

prima ancora che le sue scelte politiche. La direttrice della Padania, Aurora Lussana, spiega di non avercerla con il ministro ma con la sua volontà di cambiare la Bossi-Fini e di introdurre lo ius soli (la norma che darebbe cittadinanza italiana a chi nasce nel nostro paese, anche se da genitori stranieri). Ma poi la sostanza della accuse si rivela ben diversa: la Kyenge infatti è messa all’indice in quanto favorirebbe la “negritudine”. «La Kyenge non sa cos’è l’integrazione, non sa niente di niente», ha detto il capogruppo della Lega al Senato Massimo Bitonci. «Vuole favorire la negritudine come in Francia, ma noi possiamo farne a meno».

Ovviamente è un’accusa che fa un po’ trasecolare nel 2014, e che è davvero difficile non definire razzista. Ma è un’accusa così irrazionale e così improbabile nei suo contenuti da nascondere invece altre ragioni.

La prima di queste ragioni è la crisi in cui la Lega si dibatte da molti mesi a questa parte. Una crisi che è fatta di marginalità politica, di lacerazioni interne e soprattutto di emorragia di consensi. La Lega alle elezioni dello scorso anno ha perso 1milione e 634mila voti, dimezzando la propria percentuale (da 8,29% al 4,08%). È un partito che sembra aver imboccato la strada del declino e che pur essendo antigovernativa non riesce a drenare che una piccolissima parte dell’onda antipolitica e anticasta che ha conquistato una fetta larghissima dell’elettorato.

La Lega ha perso quel fattore di originalità che ne aveva determinato il successo, con la capacità di dar voce ad un ceto di piccoli imprenditori, tartassati dal fisco e dalla burocrazia. Anche allora toni e polemiche come quelle di questi giorni non ci venivano risparmiati. Ma quanto meno il discorso politico non si limitava qui. Oggi invece nei discorsi della Lega sembrano essere rimaste solo queste scorie, che oltre ad essere odiose nella sostanza non convincono più nessuno. Se come ha ammesso candidamente la direttrice della Padania, l’obiettivo era quello di rimettere al centro altri contenuti della proposta politica del partito, come la polemica contro il decreto scuota carceri, l’obiettivo è stato decisamente fallito.

Ma oltre al discorso politico c’è anche un discorso di carattere culturale. Da quando Cécile Kyenge è stata nominata ministro è stata oggetto di una serie di accuse e di attacchi personali, davvero sconcertanti e che accreditano l’idea dell’Italia come di un paese retrivo. È un film increscioso quello a cui abbiamo assistito in questi mesi, una sorta di maschera imposta al nostro paese. Questo è il danno più grave che la Lega sta facendo, paradossalmente ancor più grave di quello fatto ripetutamente alla persona di Cécile Kyenge, che, è bene ricordarlo, non è certo un personaggio improvvisato ma è laureata in medicina ed è chirurga oculistica.

L’Italia è invece un paese in cui il razzismo non è mai attecchito, nonostante le analisi di tanti soloni abbiano cercato di farci credere il contrario; non è mai attecchito non perché sia un paese al passo con i tempi e “moderno”, ma perché ha nel suo dna, nella sua storia e nella sua cultura una vocazione ad aprirsi al diverso. È un paese in cui l’intolleranza raramente va oltre forme riprovevoli ma sostanzialmente folkloristiche.

Per questo vien voglia di soprassedere su polemiche come quella innescate dalla Padania. E di guardare ad un fenomeno senza ritorno come quello dell’immigrazione, in modo civile e razionale. Perché è nell’ordine delle cose che gli immigrati, con il loro dinamismo, si trovino a rivestire sempre di più ruoli di responsabilità. Che possono essere quello di ministro. O anche di allenatore “della squadra più titolata al mondo”, come accadrà da domenica a Clarence Seedorf. E andranno giudicati per quello che fanno e per le capacità dimostrate. Tutto il resto è solo fango mediatico.

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