Il prof grottesco
riflesso del paese

In una sequenza indimenticabile di Amarcord - il film con il più bel primo tempo della storia del cinema - Fellini rielabora i suoi ricordi di liceale di provincia attraverso una galleria di professori passata giustamente alla storia.

È il trionfo del grottesco: l’autoritario preside Zeus, la tediosa lezione di italiano, la professoressa di storia dell’arte che inzuppa il biscotto nel punch mentre spiega la prospettiva di Giotto, il trombone con la bombetta che illustra la figura del demiurgo, la feroce e prosperosa docente di matematica, l’interrogazione di greco con l’alunno somaro che

sputacchia mentre pronuncia la parola “emarpsamen” (“E’ bella la lingua greca, vero?” “Ostia!” ), il parroco miope che parla della Trinità mentre tutti sgattaiolano fuori dalla classe e tutto quel tripudio di maschere e macchiette che ha dato la misura del genio strapaesano del grande regista.

Il film è ambientato nell’Italia fascista e stracciona degli anni Trenta e benché si fosse all’interno di una struttura rigidissima, fortemente gerarchica e autoritaria tutta strutturata sul canovaccio gentiliano del liceo come fulcro su cui fondare il futuro della nazione, la figura del docente veniva inesorabilmente trasfigurata in una dimensione delegittimante e macchiettistica. Evidentemente, a torto o a ragione, fa parte della natura della scuola. Non bisogna sorprendersi troppo, quindi, se il profilo dell’insegnante italiano viene messo sotto accusa anche oggi da un articolo del decreto-scuola appena pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. In sostanza, come si spiegava ieri su Repubblica, in tutti gli istituti dove i risultati dei test Invalsi sono risultati insoddisfacenti, gli insegnanti si dovranno sottoporre a un programma di formazione obbligatorio per aumentare la loro preparazione e le loro competenze di gestione.

Ora, l’aspetto interessante non sta tanto nelle contestazioni subito scattate su quante saranno le ore dei corsi e se verranno retribuite o meno e quale sia il vero valore del test per giudicare studenti e docenti e tutto il resto dei pateracchi ministeriali e delle lagnanze sindacali. Il vero punto è domandarsi perché in questi decenni il livello professionale medio dei nostri insegnanti sia sceso così in basso, tanto più in basso anche di quello rivisto con occhio spietatoe e malinconico da Fellini, che rappresentava sì una filosofia classista ed elitaria ma strutturata su una solida preparazione di base. Ora, è vero che anche oggi ci sono tanti professori capaci, colti e carismatici – a chi non è capitato di averne almeno uno di quelli che poi si ricordano per tutta la vita? – nonostante le strutture, i programmi, gli stipendi e l’attenzione dei governi abbiano fatto di tutto per disincentivarne l’entusiasmo e la dedizione, ma al dato di fondo non bisogna sfuggire se non vogliamo essere ipocriti.

Alzi la mano - e non solo chi ha frequentato istituti tecnici o professionali, ma anche chi fa parte delle cosiddette élite liceali - chi non abbia sghignazzato fino allo sfinimento quando ha avuto a che fare con certi aggeggi, certi sarchiaponi, certi personaggi da fiaschetteria che si davano un tono straparlando di Parmenide o degli aminoacidi ramificati e ai quali per motivi misteriosi era stato affidato il compito di formare le nuove generazioni invece di spedirli dritti filati al mercato coperto. Da dove saltavano fuori certi ceffi? Chi li aveva selezionati? Chi li aveva assunti? E perché era poi impossibile rimuoverli?

Il livello medio degli insegnanti è diventato questo perché questa è stata l’unica scelta “strategica” elaborata dai nostri governi consociativi di serie C. L’importante era dare lavoro a tutti ed espandere all’infinito il numero dei docenti, immettendoli in ruolo senza concorsi e senza una seria valutazione dei titoli e dei valori, impedendo ai presidi di scegliersi i professori così come ai genitori di scegliersi le scuole: un immenso e perverso moloch assistenzial-burocratico-impiegatizio dove tutti i prof sono grigi, tutti guadagnano gli stessi soldi, tutti fanno gli stessi orari, tutti – fino a qualche anno fa - andavano in pensione a quarant’anni e col pomeriggio libero (magari per fare ripetizioni in nero) e bla bla bla. Insomma, la storia d’Italia.

Ed andava bene a tutti. Al ministero che ogni tanto infornava qualche decina di migliaia di precari, ai sindacati che figurati se possono mai accettare le parole “selezione” e “licenziamento”, a tanti professori che si tenevano un lavoro di fatto part time per quanto a basso stipendio e a tutta la retorica patriottarda e pseudogramsciana che dalla centralità dell’istruzione per tutti si è invece risolta nel semianalfabetismo per tutti. Deriva mostruosa propagatasi pari pari nell’università, nella ricerca, nell’editoria, naturalmente, che a veder certi giornalisti litigare con i congiuntivi verrebbe voglia di mandarli a ripetizione dal maestro Manzi, nella politica di sinistra, ovviamente, e pure in quella di destra, perché dopo aver sentito qualche personaggio particolarmente pagliaccesco starnazzare sulla cultura che non dà da mangiare quando invece se si fosse investito su cultura, innovazione e turismo navigheremmo nell’oro, capisci perché la destra sia una cosa seria nei paesi sviluppati e una buffonata in Italia.

Qualche anno fa, l’indimenticato Giorgio Rumi, grande storico lariano e intellettuale del cattolicesimo liberale, intervistato dalla Provincia sul tema, sostenne che il vero problema della scuola erano gli insegnanti e che lui era stufo di leggere tesi di laurea scritte da analfabeti di ritorno. Ed eravamo alla fine degli anni Novanta.

Indro Montanelli, invece, che era uomo di una destra mai esistita in questo paese, sosteneva che asini, ciuchi e somari sono sempre abbondati e sempre abbonderanno nelle scuole di tutti i tempi e di ogni latitudine. Quelle credibili, però, fanno almeno due cose: insegnano un metodo e formano un carattere. Metodo e carattere: roba da gente seria. Non fa per noi.

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