Le colpe? Da noi sono
sempre degli altri

Tutti pensano che il film più bello della Pixar sia “Alla ricerca di Nemo” ed ha ragione “Il Foglio” a ritenere che come Dory, la pesciolina blu smemorata, non ci sarà mai più nessuno e che quella del “pesce da lenza” e del suo papà sia la storia più commovente di sempre. Anche se alzi la mano a chi non si sono arrossati gli occhi nel palpitare per i cuori infranti di “Up” e di “Wall.E”.

Eppure, il capolavoro degli Studios californiani è, probabilmente, “A bug’s life”, film d’animazione del ‘98 che, narrando la storia di una colonia di formiche, arriva a un livello di perfezione non inferiore a quello della “Carica dei 101”. Bene, in una delle scene chiave, le formiche, per colpa della distrazione del protagonista pasticcione Flick, perdono tutto il cibo da offrire alle cavallette per non subirne le angherie. E così la regina del formicaio, terrorizzata dall’interrogatorio di Hopper, il feroce capo delle cavallette, accusa Flick di essere l’unico responsabile dell’incidente. Hopper la zittisce e pronuncia la frase cult: “Prima regola del comando. Ogni cosa è colpa tua”.

Che grande verità. Che assoluta e profondissima concezione, tipica della cultura anglosassone da cui anche quei geni della Pixar discendono, del senso del potere, della sua nobiltà, del suo codice d’onore che lo rende un valore fondante e allontana da sé ogni rischio di licenza, di vessazione, di sopruso. Il potere come strumento di lavoro, non come esibizione muscolare. E non facciamoci ingannare dal fatto che sia un prodotto per bambini perché è proprio in quella dimensione – pensiamo solo alle funzioni di Propp, che stanno alla base di qualsiasi narrazione fiabesca – che germogliano le lezioni più solide e durature. La filosofia della lotta sociale per l’emersione dei talenti e la “dittatura” della meritocrazia si basa su una visione spietata, vitalistica e tragica dell’esistenza dove c’è chi vince e chi perde, dove chi prevale prende tutto e il secondo non conta nulla, dove in un attimo si può passare dagli stipendi milionari di Downtown a dormire sotto un ponte sugli scatoloni della Lehman. Ma anche viceversa. È un mondo crudele con un cuore selvaggio, terribile e, per chi abbia scelto una visione solidaristica della società, intimamente ingiusto. A tratti inaccettabile. Ma sapere che dentro lo zaino di ognuno può esserci nascosto il bastone di maresciallo e chiunque può farcela da solo contro tutto e contro tutti e che due cronistelli semisconosciuti possano far dimettere il presidente degli Stati Uniti, beh, questa è una cosa che allarga il cuore.

Invece, a noi poveracci tocca aver a che fare con il mini-Letta, che giusto un paio di giorni fa ha scoperto, ohibò, che i conti non tornano, abbiamo sforato il rapporto deficit-pil, la spesa pubblica, come al solito, è fuori controllo e che in soli quattro mesi il governo ha creato quasi tre miliardi di buco e che le coperture dei vari provvedimenti presi erano, in buona sostanza, una solenne buffonata e, alla fine della fiera, quando lo si sente farfugliare, dopo un rapido passaggio in fiaschetteria, che tutto questo è solo colpa dell’instabilità politica è una roba che altro che darlo in pasto alle cavallette. Quelle bibliche ci vorrebbero…

È colpa degli altri. È sempre colpa degli altri. È sempre e inesorabilmente colpa degli altri. E ci fosse uno straccio di leader del nostro paese da strapazzo che avesse il coraggio di dire che la colpa è sua. A prescindere. Perché la colpa oggettiva è sempre di chi comanda. Sempre e comunque. E chi sbaglia, paga. Questo è il chiodo su cui si dovrebbe appendere un profilo politico o aziendale che abbia un senso e una dignità. E invece noi restiamo il solito palcoscenico degli Schettino, i primi a scapicollare giù dalla nave, che se è finita contro gli scogli è colpa delle multinazionali. E abbiamo visto i governi di centrodestra, i mitologici e palingenetici governi di centrodestra e ci si è fatti tutti assieme le più crasse risate sul Berlusconi che non è riuscito a compiere le riforme liberali perché è colpa dei comunisti e dei magistrati e dei sindacati e della Merkel e della burocrazia e dei poteri forti e del complotto massonico e dell’Inter del Triplete e non invece del semplice fatto che il genio delle elezioni è anche l’incapace del governo, lui e la sua banda di signorsì rifiniti al photoshop. E poi abbiamo visto i governi di centrosinistra e ci siamo fatti le più sante risate su Amato e Prodi e D’Alema che non sono riusciti a estendere le riforme socialdemocratiche perché è tutta colpa di Berlusconi, degli italiani spaghettari, delle veline, del popolo bue, della dittatura catodica e della famiglia Bush e dell’attacco alla memoria dei partigiani e all’articolo 18 e alla scuola pubblica e non invece del semplice fatto che questi qui vivono nel loro mondo parasindacal-corporativo-ottocentesco mentre l’universo corre e loro sono ancora lì sulle terrazze a sfogliare le raccolte di Rinascita e di Moravia.

Ma a che serve questa gente? Che ce ne facciamo? E non è questione di politica, perché lo stesso riflesso condizionato lo si coglie in qualsiasi ambito e luogo di lavoro, perché questo, in fondo, resta sempre il paese dove non vince mai nessuno, non perde mai nessuno ma alla fine ci si mette tutti quanti d’accordo. E si aspetta. E si rinvia. E si dilaziona. E si tronca e si sopisce. E si tira a campare. E però, intanto, si muore. E pensiamo a noi. A tutte le nostre responsabilità dirette dalle quali cerchiamo di sgattaiolare, rifilandole al vicino di scrivania o insabbiandole in attesa di tempi migliori. Chi ha i gradi ne sia degno e mostri almeno un po’ di orgoglio, che sarà anche un peccato capitale, ma di certo l’unica cosa che impedisca a un uomo di diventare un servo.

I bimbi guardano i cartoni animati, ma anche i loro genitori. Sapere che il loro papà non sbava, non scappa, non lecca le scarpe all’amministratore delegato ed è capace di dire “colpa mia” rappresenta la lezione più bella.

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