Nel calcio marketing
il risultato non conta

Qualche anno fa, quando è diventato più importante arrivare quarti in campionato piuttosto che vincere la Coppa Italia, il calcio ha iniziato a dissociarsi inesorabilmente dalla realtà.

Non era mai successo. Fino ad allora era sempre stato ovvio che un titolo era per sempre, visto che entrava nel palmares della società e che nessuno lo avrebbe mai cancellato, mentre invece un piazzamento, per quanto onorevole, restava pur sempre un piazzamento. E invece, dal momento in cui la partecipazione alla Champions League - che nella sua brama devastatrice e cavallettesca si è inglobata prima la Coppa delle Coppe e poi, di fatto, pure la Coppa Uefa - si è trasformata nel volano fondamentale per il futuro di una squadra, del suo mercato, del suo marketing, del suo valore economico, della sua potenza televisiva, il risultato sportivo è diventato secondario. Si sono visti dirigenti festeggiare un terzo posto a trentasei punti dalla prima e altri nascondere una Supercoppa Italiana tra le balle di fieno o piazzare una Supercoppa Europea su Ebay. Il mondo all’incontrario.

Ora, è vero che il pericolo è svaccare in uno stucchevole amarcord da pensionati davanti ai cantieri sui bei tempi andati e quanto era sano il calcio pane e salame dell’oratorio e del viva il parroco e dell’Inter del Mago e del Milan del Paròn e Rivera e Mazzola e il Grande Torino e Italia Germania quattro a tre e le figurine Panini da attaccare con la colla e Nicolò Carosio e Novantesimo minuto e clamoroso al Cibali e l’Arena e Meazza e tutto il resto della retorica sull’Italietta da strapaese di una volta che era meglio di quella nevrotica e rancorosa del giorno d’oggi e bla bla bla. Ed è anche vero che non si può certo pensare di smontare un segmento imprenditoriale che vive del rapporto sinergico con televisioni e pubblicità e che fa parte a pieno titolo dello star system planetario. Basti pensare all’entrata in scena di importanti soggetti economico-finanziari extraeuropei - dai russi, agli americani, agli emiri, ai cinesi (quelli veri) - per capirlo.

Ma il punto è che, comunque, tutto il castello di carte dovrebbe basarsi ancora su dei fatti oggettivi. I risultati, ad esempio. E invece no. La dimensione planetaria di una squadra ha paradossalmente più bisogno di testimonial pubblicitariamente spendibili che di vittorie. Tanto è vero che il ragionamento di grande acume e buonsenso che ha fatto la Juventus nell’imbastire l’operazione Ronaldo - oggettivamente clamorosa - si basa proprio su questo. Non sono bastati sette scudetti consecutivi e due finali di Champions, oltre a coppe e coppette assortite, a regalare alla squadra bianconera quell’appeal e quello status e quei fatturati che costituiscono la polpa del Real, del Barcellona e di pochissimi altri. E probabilmente - paradosso dei paradossi - neppure se avesse vinto le due finali sarebbe cambiato granché. Mancava il volto, la metafora, il monolito, il testimonial globale che è sì calcio, ma molto di più: moda, fashion, stile di vita, immaginario collettivo. Questa è l’unica via per raggiungere il risultato vero, molto più importante di quello del campo. Altrimenti solo un pazzo si infilerebbe in un’operazione da quattrocento milioni per un giocatore che va verso i trentaquattro anni.

Ma almeno con Ronaldo, così come per Messi, entrambi incamminati su un radioso viale del tramonto, stiamo parlando di due tra i più grandi giocatori della storia. Insomma, stiamo ancora parlando di calcio. Il dramma, quello vero, quello esiziale per chi ami lo sport, è che testimonial globali sono diventati anche dei mezzi calciatori, che niente hanno a che fare con la divinità di Maradona, Di Stefano o Cruijff. Uno a caso, Neymar. E come mai ce lo vendono come un fenomeno? Ma perché? Ma quando mai lo ha dimostrato? Ma da quando i giocolieri da circo, per quanto di altissima qualità, diventano automaticamente fuoriclasse? Questo ha già ventisei anni, cosa ha mai sfoggiato di così storico, fuorché le capigliature e la spocchia brasiliana? E ci ricordiamo di Beckham? In fondo era solo uno che faceva dei bei cross, eppure ce li hanno frantumati per anni con lo Spice Boy. E già s’avanza Mbappè, il nuovo Pelè, perfetto propagandista di tutti i figli delle banlieu che hanno trovato nel calcio quell’integrazione gioiosa speranza dell’Europa solidale e via sbrodolando, ma che appena ha trovato una difesa tignosa come quella dell’Uruguay non ha toccato una palla.

E la prova lampante della dittatura del marketing la si vede nell’assegnazione del Pallone d’oro. Ma è possibile che negli ultimi dieci anni lo abbiano vinto solo Messi e Ronaldo? Chiunque segua il calcio senza l’anello al naso ritiene incredibile che non sia mai stato dato a Iniesta, il miglior centrocampista degli ultimi vent’anni, e c’entra forse qualcosa che sia piccolino e con quella faccia da impiegato del catasto come si fa a metterlo in una gigantografia in mutande? E che non l’abbia vinto Eto’o, l’unico rapido e goleador come Ronaldo (quell’altro), ma non è che forse era troppo africano, troppo selvatico, troppo negro? E Buffon, troppo italiano, troppo sputtanato da Calciopoli, troppo baffo nero mandolino?

Il calcio è anche immagine e ci mancherebbe. Ma se è solo immagine, allora diventa un’altra cosa, molto lontana dallo sport. Allora non servono più neppure i campionati nazionali, tanto li vincono sempre gli stessi. Allora non serve più neppure la Champions attuale, che ha ancora il pessimo difetto di scegliere i partecipanti in base ai risultati. E se è così, allora che ce ne facciamo di una Fiorentina o di una Lazio? Servono solo le squadre storiche e con tantissimi tifosi, anche se cotte (Inter) o stracotte (Milan). Allora serve solo una MegaCoppa delle Nobili d’Europa, una manifestazione massonica a inviti sulla base esclusiva del pedigree: le due spagnole, le tre italiane, la tedesca e le cinque inglesi. Fate pure così, se vi piace tanto, ma poi fateci pure la cortesia di giocarvela da soli.

@DiegoMinonzio

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