Qualcuno non faccia
la fine del Pci

Negli anni Settanta funzionava più o meno così. C’era una squadra con la maglia a strisce che in Italia faceva il bello e il cattivo tempo, ma appena metteva il naso in Europa prendeva schiaffi anche dall’ultima accozzaglia di ubriachi dei Carpazi Meridionali. Poi, c’era un partitone gonfio, gassoso, onnivoro e perbenista che si immolava a diga contro l’Impero del Male e tutti si vergognavano di appartenervi ma tutti lo votavano nel segreto dell’urna, perché almeno lì Baffone non avrebbe potuto vederli ma quell’altro invece sì. E c’era pure un agglomerato palpitante di stiliti rivoluzionari che prometteva palingenesi, iperboli e pane e burro per ognuno di noi ben sapendo che, visto che mai gli sarebbe toccato in sorte di governare, poteva permettersi di sproloquiare su qualsiasi cosa. E lì, proprio lì, in quell’alveo melmoso di bambagismo, irresponsabilità e velleità liceali figlie dell’occupazione scientifica del culturame, si stagliava – meraviglioso, immaginifico, prometeico – il profilo del cantautore impegnato.

Gramsciano. Organico. Engagé. Sale e lievito della cultura “de sinistra”. Spietato entomologo delle lucciole pasoliniane così drammaticamente scomparse. Fustigatore calvinista dei costumi lascivi e corrotti della nostra lurida classe media strutturata su professori bolsi, codini e forforosi, bottegai avidi e pavidi, industrialotti che con i loro capannoni sordi e grigi già stavano devastando gli incontaminati panorami della nostra bella Italia che ormai era solo un ricordo, speculatori edilizi rei del sacco delle coste, tutti quanti imbottiti sotto la coltre farisea e filistea dello Stato pontificio, che comandava più allora di quando lo Stato pontificio c’era per davvero. E maglionazzi sformati e bombette peruviane e teatro off in calzamaglia e compagni che sbagliavano e autocoscienze davanti al falò e contraddizioni del sistema e poliziotti assassini e capelli unti e bisunti e bla bla bla… Quante se n’è viste di avanguardie schitarranti sul radioso avvenire della sinistra italiana, che era comunista ma anche no, come da tipico birignao del deputato Michele Apicella nel profetico “Palombella Rossa” di Nanni Moretti («Siamo diversi ma uguali, uguali ma diversi»). E loro, i cantanti, i gruppi, i cantautori, gli sciamani tutti lì, tutti schierati, tutta roba loro. Nei secoli dei secoli.

Adesso, tutto sommato, è la stessa manfrina. La squadra con la maglia a strisce è tornata a tirarsela da fenomeno in Italia, emanando nuove ondate di simpatia contagiosa, e a riprendere regolarmente sberle, ceffoni e manrovesci appena passato il valico di Ponte Chiasso. Il partito ciccione, gassoso e onnivoro ha soltanto cambiato nome (da Dc a Pd) ma in fondo, da quando ha inglobato Berlusconi e berlusconoidi, è l’identico pateracchio. L’agglomerato ribellista e moralista gode, come da tradizione, di pessima stampa ma tutto sommato di buona salute e continua a dirle, urlarle e straparlarle e il fatto che il Pci di una volta incarnasse una schiatta del tutto diversa e mille volte più nobile del Movimento Cinque Stelle vuol dire poco. La certezza di non andare mai al potere lo spedisce dritto filato sui sentieri già ben sperimentati della demagogia ad alzo zero e del velleitarismo arruffone. E infatti – così tutto torna - non è un caso che i giovani cantanti di riferimento, quelli che auscultano e rappresentano la pancia, ma anche il cuore, delle nuove generazioni, siano tutti lì.

Il caso Fedez ne è l’esempio più lampante. Il rapper milanese – vendutissimo nelle hit, amatissimo dalle ragazzine e seguitissimo giudice di “X Factor” – è finito nel tritacarne della nostra politichetta da quattro soldi per la sua canzone anti Napolitano, che è diventata l’inno della kermesse dei grillini al Circo Massimo. In un qualsiasi paese serio dell’Africa boreale uno avrebbe chiosato con un bel chissenefrega e tanti saluti, ma visto che qui siamo nel regno dei cervelloni, sono saltati fuori due scienziati del Pd a chiederne la cacciata dal programma cult, visto che Sky, sostenitrice di una linea equidistante dai partiti, non potrà certo tollerare un strappo di tale gravità. Due geni. Incredibile che non siano ancora stati nominati sottosegretari con delega alla riconversione delle miniere di ullmannite cobaltoide. È seguìto dibattito nei talk show, stizzite repliche dell’interessato che quelli lì sono dei fascisti, battibecchi tra comari su Twitter e tra sciampiste su Facebook prima di andarsene tutti quanti a vedere Italia-Azerbaigian. Insomma, il tipico canovaccio della nostra rutilante civiltà della comunicazione integrata.

Ma il punto significativo è un altro. E cioè che il mondo dei Fedez, che non era ancora nato quando è caduto il Muro, non è assorbibile dalla civiltà dei Renzi e che alla faccia delle badilate di melma che ogni giorno tiriamo in faccia ai Cinque Stelle – in parte a ragione, perché sentire certe panzane di Grillo fa venire da piangere, ma in parte anche a torto – c’è un venti per cento di società comunque non riconducibile allo spirito del tempo del partito unico del Renzi a prescindere, visto che dopo di lui c’è il diluvio. E tutto fa pensare che possa andare avanti così a lungo. Perché il bulletto di Firenze ha due caratteristiche pessime o ottime a seconda di come lo si traguardi: è un politico puro, anni Cinquanta, e quindi non lo freghi (fino a prova contraria) con le ragazzine, le polverine, gli appaltini, le bustarelline, perché quello è il suo karma, il suo orgasmo vitalistico; dall’altra, è un cacciapalle atomico che sposta sempre in là il punto in agenda, valore apprezzato assai nella civiltà dei Flajano e dei Longanesi.

Quindi c’è lui e ci sono loro: tutto il resto è fuffa. E se non esiste democrazia senza opposizione seria e strutturata, allora i grillini hanno una grandissima responsabilità sulle spalle: prima se ne renderanno conto, prima eviteranno di fare la fine del Pci e di diventare corresponsabili inerti del disastro che si avvicina.

© RIPRODUZIONE RISERVATA