Se Renzi dovesse
uscire di scena

Facciamo finta che oggi Renzi con un coup de théâtre annunci il suo ritiro dalla politica (buoni D’Alema e Bersani, è solo un’ipotesi) cosa accadrebbe? Fino a una settimana fa la risposta sarebbe stata facile: arriverebbe la Boschi. Adesso con i venti che soffiano dall’Etruria (a proposito, pensate se al posto di Maria Elena ci fosse stata la Carfagna con genitori e il Berlusca a palazzo Chigi: avremo le piazza ricolme di forconi), la faccenda si farebbe più spessa. E allora? Toccherebbe al centrodestra governare? E con quale leader? Berlusconi, fatte le debite proporzioni e il diverso epilogo, ricorda l’ultimo Mussolini di Salò. Ogni tanto trova una platea del teatro Lirico che lo acclama ma sa che il suo destino è segnato. Anche per colpa sua, novello Cronos che ha divorato tutti gli aspiranti eredi politici. Tra i quali, francamente, è difficile annoverare il vispo Salvini che a colpi di ruspe (che spostano la terra, meno i voti) e felpe può anche tentare di camuffare l’identità leghista ma oltre un tot non può andare. Dice: e la famiglia Le Pen? A parte che c’è ancora da vedere come andrà a finire, l’Italia non è la Francia, e al contrario di ciò che accade oltre il Bianco e Ventimiglia gli umori elettorali di chi vuole meno Europa e soprattutto meno altri continenti non sono esclusivo appannaggio di una sola forza politica.

Ci sarebbe Passera, non fosse che gli sta già spuntando l’accento sulla lettera finale. In attesa di capire se Della Valle vorrà abbeverarsi al calice amaro a cui già attinse all’epoca l’ex Cavaliere, nel centrodestra rimane un vuoto desolante di idee ma soprattutto di condottieri.

In una fase storico-politica marcata dal travaso tra il partito e il leader, la faccenda è seria e magari anche grave perché l’alternanza fa sempre bene. Vabbé ci sono i Cinque Stelle. Chiaro che, probabilmente, se si votasse domani farebbero il pieno. Ma questa è la miglior assicurazione sulla vita governativa di Matteo Renzi. Il quale ha aperto una Leopolda che lui, amante dei riflettori, non avrebbe certo voluto con la lunga ombra del caso banche e risparmiatori ridotti sul lastrico, che oltretutto gli sta rubando la scena mediatica. Ma se il premier segretario del Pd resta saldo in poltrona per demeriti altrui, il suo personale borsino segna qualche affanno.

La crescita annunciata e un po’ taroccata che l’avrebbe trainato come uno scinauta verso il 2018, non si manifesta nei termini auspicati. E il governo, al netto del Jobs Act che qualcosina ha portato, non ha ancora mostrato di essere in grado di irrobustirla.

L’Europa che Renzi voleva cambiare rischia di cambiare lui come gli amari eroi di “C’eravamo tanto amati”. Nella guerra all’Isis, va detto per fortuna, non ci sono medaglie al valore per un’Italia costretta dalla sua storia e dalla sua geografia a rimanere acquattata nelle retrovie (meglio così, va ribadito). L’affaire delle banche (l’Etruria richiama nel nome l’Etruschi che fecero tanto ma durarono poco) è un impiccio di non poco tanto che non si spegnerà tanto in fretta e ricorda alla lontana un profetico racconto di Piero Chiara, ambientato sul lago di Monate in provincia di Varese.

La Leopolda che ritorna dopo cinque anni, la location da cui partì la conquista del partito e del governo per l’allora sindaco di Firenze diventa perciò un crinale. Da qui sarà lanciato il ponte verso quell’anno 18 destinato a quanto pare ad essere in qualche modo fatale anche in questo secolo. Essere senza alternative è più uno svantaggio che un vantaggio. Vero che Renzi non è uno uso ad appisolarsi sulle foglie aromatiche. Ma alla lunga, il “io so’ io e voi non siete un ...” di sordiana memoria rischia di diventare l’alibi per i tanti vorrei ma non posso o potrei ma non voglio.

Ieri Bersani, in un’intervista, ha denunciato la presunta volontà del premier di trasformare il Pd in un partito di centro, la paventata Dc 2.0, partito pigliatutto della Terza Repubblica. Potrebbe anche essere. Ma in una fase storica in cui destra e sinistra appaiono sempre più categorie novecentesche (la crisi di due principali partiti europei ne è lo specchio) in un mondo che globalizzazione e crisi stanno paradossalmente riportando all’Ottocento, specie per quanto attiene ai rapporti sociali e di produzione, la questione appare marginale.

In realtà per il premier più giovane dall’Unità nazionale a oggi, è venuto davvero il momento di dimostrare se diventerà il Tony Blair italiano. Ammesso e molto poco concesso che la nostra realtà possa partorire e soprattutto reggere un Tony Blair. Da qui alle elezione del 2018, le prime fra l’altro (primarie a parte) in cui Renzi si cimenterà di persona, il premier segretario deve costruire e consolidare il suo modello di innovazione della politica e del governo del Paese. Potrà piacere o no.

Ma la mancanza di alternative realistiche all’attuale presidente del Consiglio fa sì che in questa prova giocoforza ci siamo dentro tutti. E tutti dovremmo uscirne. Ecco perché la Leopolda di questo weekend assume un significato che travalica il Pd con le sue ammuine (tutti chilli che stanno a prora vann’ a poppa e chilli che stann’ a poppa vann’ a prora) e diventa la cartina di tornasole per il prossimo futuro.

Già si capirà qualcosa: se la faccenda si esaurirà nell’autocelebrazione del premier e del (poco) fatto con il tanto ancora da fare, tanto vale mettere giù il pensiero. Se invece traccerà l’identikit di un soggetto politico innovativo, riformista , aperto, scevro dai personalismi e con una forte capacità di elaborazione, forse la strada sarà quella giusta, anche se in salita. Nell’attesa che il centrodestra decida cosa fare da grande e magari, come auspicato da alcuni, metta su una sua Leopolda.

La scelta del nome del nuovo think tank renziano, “Volta” se riferita al grande scienziato comasco potrebbe essere un buon viatico. Volta richiama al secolo dei lumi e soprattutto alla luce. Quella che di solito si vede fuori dal tunnel.

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