Un governo rinnovato
specchio di Matteo
governo specchio di matteo

Due ore e mezza di colloquio al Quirinale tra Giorgio Napolitano e Matteo Renzi da soli ci dicono quanto sia stato laboriosa la nascita di questo governo. Benché il Capo dello Stato abbia smentito, ma non poteva fare diversamente, qualunque “braccio di ferro” tra lui e il presidente incaricato, non c’è dubbio che egli abbia esercitato fino in fondo i poteri che gli conferisce la Costituzione all’articolo 92, ossia la nomina dei ministri “su proposta” del capo del Governo. E questo si è visto soprattutto nella scelta di Pier Carlo Padoan, il super tecnico dell’OCSE che sta rientrando dal G20 di Sidney per occupare la poltrona che Fabrizio Saccomanni ha lasciato libera. Non è un mistero che Renzi avrebbe preferito un ministro “politico”, e particolarmente il suo fidatissimo collaboratore Del Rio: evidentemente il profilo di quest’ultimo – un medico ex sindaco di Reggio Emilia e ministro per un solo anno alle Regioni – non convinceva né Napolitano né, par di capire, Visco e Draghi che sono un po’ i controllori della nostra coerenza economico-finanziaria.

Per tutto il resto, Renzi è riuscito, dopo una lunga trattativa, a imporre il suo “segno” a questo governo, che è quello di un fortissimo rinnovamento che sia specchio dello stesso presidente del Consiglio. E per questo ha presentato al Paese una squadra di ministri giovani o giovanissimi, che esordiscono nel ruolo di governo e talvolta contemporaneamente anche in quello di parlamentari - è il caso della Boschi, deputata di prima legislatura che si carica dei rapporti Governo-Parlamento e delle Riforme istituzionali. Solo in certe caselle sono stati posti degli esordienti che hanno una qualche esperienza nella materia che dovranno trattare, per il resto è sembrato che il criterio privilegiato sia stato quello della giovane età. E poi si è scelto di mettere in piedi il governo più “rosa” possibile: la metà delle poltrone va a donne, e questo sicuramente è un fatto che verrà apprezzato. Inoltre Renzi è riuscito da una parte a comporre un puzzle che contentasse le correnti del suo partito e dall’altra i partiti alleati. Alfano resta ministro dell’Interno, rinuncia alla carica di vicepremier, che è notoriamente una semplice bandierina, e conserva altri due dicasteri di peso. Semmai qualche criticità la si potrà scorgere sul lato dei partiti più piccoli come l’Udc e i Popolari per l’Italia. Sono particolari che immaginiamo Renzi abbia soppesato, considerando che la maggioranza in Senato è abbastanza esile, che ci sono nella sinistra Pd tanti maldipancia e che dunque non ci si può permettere troppa leggerezza. Questo per quanto riguarda la struttura.

Cosa dovranno fare questi ministri, e per quanto tempo? Sul programma siamo ancora abbastanza all’oscuro del risultato della trattativa tra i partiti. La riunione di maggioranza dell’altra sera è stata disertata da Renzi il quale si è riservato di decidere in ultima istanza, e dunque sapremo di più solo ascoltando il suo discorso programmatico sperando che voglia addentrarsi nei contenuti e andare oltre quella scadenza “di una riforma al mese” di cui ha parlato il giorno dell’incarico. Quanto all’arco temporale, è dichiarata la volontà di andare avanti fino al 2018 coprendo l’intera legislatura.

Contro questa intenzione naturalmente è già iniziato il gioco tutto italico di scommettere su quando cadrà un gabinetto che non ha ancora giurato: ma questo purtroppo fa parte die nostri vizi e vezzi di cui non riusciamo a liberarci. In Germania hanno impiegato mesi per stabilire un programma e una tempistica dell’azione di governo precisi fin nel dettaglio e sanno che il lavoro andrà necessariamente avanti fino a scadenza. Ma è, appunto, la Germania. In assenza di qualcosa di simile, noi siamo legittimati a temere che, tanto per fare un esempio, la responsabile dello Sviluppo Economico, ex di Confindustria, e quello del Lavoro (ex Lega Coop) possano non avere idee collimanti. Ma, come dicono gli inglesi, sapremo se il budino è buono solo mangiandolo.

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