Giallo nel Comasco, l'ucciso
aveva già ricevuto minacce

Antonio Di Giacomo aveva paura. Due persone, una di Lecco e una di Grosseto, gli dovevano soldi, tanti soldi, 250mila uno, 90mila euro l’altro. Eppure erano loro che lo minacciavano per farlo smettere di chiedere indietro il suo denaro. Uno, in particolare, gli aveva detto: «Ti faccio un buco nella testa, questa me la paghi»

CAVALLASCA (Como) Antonio Di Giacomo aveva paura. Due persone, una di Lecco e una di Grosseto, gli dovevano soldi, tanti soldi, 250mila uno, 90mila euro l’altro. Eppure erano loro che lo minacciavano per farlo smettere di chiedere indietro il suo denaro. Uno, in particolare, gli aveva detto: «Ti faccio un buco nella testa, questa me la paghi». L’uomo ucciso con due colpi di pistola al cranio aveva chiesto il porto d’armi, un anno fa circa, ma non gliel’avevano concesso. Doveva difendersi da solo, sperando che nessuna delle minacce andasse mai in porto. Anche il giorno del suo omicidio, aveva lasciato il suo furgone vicino a casa del fratello, a Tavernerio.
«Secondo me era un modo per dire, tranquilli, ci sono. Sono andato via un attimo, ma torno». È Massimo Marino, amico di infanzia della vittima, a ricostruire le ultime ore del commerciante di Colico trovato disteso nella cassa che lui stesso aveva costruito sul suo furgone per metterci le attrezzature da surf.

«Chi l’ha ucciso gli ha anche rubato anche lo zainetto con gli orologi che vendeva - dice Marino, che ha conosciuto Antonio alle elementari e da allora è sempre rimasto suo amico -. Comunque,  ci siamo sentiti venerdì. Mi ha detto: "Sono dalle tue parti, tra poco arrivo a Cavallasca"». Mancavano dieci minuti alle 11. «Non mi ha detto esattamente dov’era, ci siamo dati appuntamento per le 14, ma io mi aspettavo di vederlo anche prima, nel giro di un’ora. Noi ci troviamo sempre qui, al bar del Campo a Cavallasca. dovevamo andare da un cliente. Solo che venerdì non è mai arrivato. L’ho chiamato sul cellulare ed era staccato. Ho pensato che gli si fosse scaricato e che poi alla sera fosse andato a casa. Lui era uno preciso, puntuale, alle sette, sette mezza massimo era a Colico da sua moglie e dai suoi figli». La mattina dopo Cecilia chiama Massimo: «Sai dov’è Antonio? Non è tornato a casa, non è da lui, sono preoccupata. Mi aiuti a cercarlo?».

Marino inizia a cercare dalla pizzeria di Uggiate Trevano vicina al bar Nuvola dove sarebbero dovuti andare il giorno precedente. «Gli avevo trovato questo cliente ed era lì che dovevamo andare. Ma quando al sabato ho chiesto se per caso era passato da solo, mi hanno detto che li aveva chiamati ma poi non si era visto». A quel punto l’amico va a casa della madre di Antonio, a San Fermo, le lascia il suo numero di cellulare. «Mi chiama uno dei fratelli, Sebastiano, ci incontriamo in piazza e troviamo un brigadiere di Rebbio che conosco. Andiamo a far denuncia, poi ognuno va a casa propria. Esco quasi subito e chiamo un mio amico, che si chiama Adelmo. Siamo tutti impegnati a cercare Antonio. Mi arriva la telefonata di Paolo Lurati che è un altro dei suoi amici, mi dice: "Guarda che mi ha telefonato la moglie di Antonio, dice che hanno trovato il furgone"». Il resto è la scoperta di una tragedia. «Mi chiama Sebastiano, andiamo a Tavernerio, in via alle Selve. "Aspettami, sto arrivano, sto arrivando", gli dico. E a quel punto si sono fatte le due di sabato pomeriggio. Il furgone è chiuso, è la polizia che lo apre. E allora anche se me l’hanno fatto vedere poco, l’ho visto lì. L’hanno conficcato nella struttura di legno che lui aveva costruito per mettere le cose del surf. Solo che lui era alto e i piedi sbucavamo sulle macchine del caffè».
Secondo Marino il sacchetto in testa gliel’hanno messo per non sporcare.

«Io ho detto subito alla polizia che c’erano quei due che dovevano restituirgli i soldi. Non so se siano stati loro a chiamarlo o qualcuno altro. Ma chiunque sia stato gli ha dato appuntamento. Lui si fidava, altrimenti non sarebbe salito in auto. E invece deve essere andata così. L’hanno ucciso da qualche altra parte, poi l’hanno caricato sul furgone. Se solo mi avesse chiamato, se mi avesse detto: "Massimo vieni, che non mi fido". Invece è andato da solo, quindi conosceva quelle persone e di certo non si aspettava che sarebbero arrivate a tanto».
Marino ha parlato con la moglie, gli ha consigliato di dire tutto quello che sapeva alla polizia, anche i particolari che sembravano più irrilevanti, ma appunto erano questi i contatti che preoccupavano Di Giacomo, quei soldi che non tornavano dai debitori.
«Era una brava persona, uno che stava alle regole - dice il suo amico -. Era uno che faceva soldi lavorando. Anche i 250mila euro li aveva ricavati dalla vendita di una pizzeria che aveva a San Fermo. Era padrone dei muri. Poi l’aveva venduta e aveva investito quei soldi che erano finiti male.
Era una persona molto riservata, prudente, anche sospettoso a volte se c’era gente che ci guardava male, cambiavamo strada. Ma lui era una bravissima persona, la moglie l’ha visto l’ultima volta venerdì, quando è uscito per restare al lavoro. Ora è sola con tre bambini piccoli e il peggio è che non sappiamo ancora chi l’ha ucciso e perché l’ha fatta».
Anna Savini

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