La belva dormiente
che non si fa domare

È il passato che non passa. L’area Ticosa, come nel Monopoli, torna al via. Ma anziché incassare, come si usa sul tabellone del popolare gioco da tavolo, i comaschi continuano a pagare. Quanto denaro è stata versato per quell’area dismessa che sembra aver in pancia tutte le maledizioni del creato e si diverte a riversarle su coloro che tentano di mettervi mano.

Questo passato non vuole passare. La Ticosa è il simbolo ancora vivente, nonostante le apparenze, di ciò che è stata Como. Una città industriale, operosa che si teneva strette in grembo le grandi fabbriche collocate vicino ai corsi d’acqua, indispensabili per le produzioni delle tintorie e delle tintostamperie. E

ra una Como che andava a letto presto perché la mattina c’era da lavorare, eccome. Con il centro storico spento e anche un po’ spoglio, altro che la movida. Poi molte grandi fabbriche hanno chiuso. E quasi tutte le loro aree e i loro edifici sono rinati a nuova vita.

Como, privata delle sue industrie in convalle, ha vissuto l’incubo della città dormitorio, salvo risvegliarsi con brio grazie al turismo che, lo si nota in maniera evidente oggi ha cambiato e sta cambiando in maniera radicale la città e le sue funzioni.

Ma non nell’ex Ticosa. Lei è rimasta lì, sempre negletta a voler modificare la propria esistenza, e magari a passare la mano. Meglio restare immersa in quel sonno in cui nel secolo scorso, anno 1982, era sprofondata con la fine dell’attività produttiva.

Chi tenta di svegliarla, la disturba e finisce sempre per pagare caro il proprio ardire. La belva si desta anche solo per un attimo e colpisce. E sa far male.

Ci hanno provato plotoni di amministratori e politici della Prima Repubblica, quando c’erano anche i quattrini per mettere insieme qualcosa di decente. Tutti respinti con perdite. Ricordiamo qualcuna delle tante ipotesi: polo scolastico, trasferimento e razionalizzazione degli uffici pubblici, parco, cittadella dell’artigianato, centro direzionale, abitazioni e uffici, e così via Nulla di fatto.

Con la Seconda Repubblica si è tentato pure di abbattere i capannoni fatiscenti, lo scheletro malato della bestia. Forse si pensava che la maledizione risiedesse lì. Ma il mostro è stato lesto a spedirla nel sottosuolo dopo essersi fatto qualche sadica risata di fronte ai manifesti che ostentavano la soluzione del problema da lui rappresentato. La bonifica dell’area si è trasformata in un’avventura alla Indiana Jones. E alla fine, manco a dirlo, ha vinto ancora lei: la bestia Ticosa.

Che, almeno per il momento e in attesa di altri ardimentosi tentativi di fiaccarne la tetragona e atavica resistenza, tornerà probabilmente a svolgere le funzioni di parcheggio, finora tollerate dal testardo animale invisibile, forse perché solo provvisorie.

Anche se il provvisorio potrebbe ancora diventare definitivo. Perché i parcheggi, oltre a rappresentare un elemento strategico per la città turistica, possono anche diventare una discreta fonte di introiti (San Fermo docet) per le casse comunali dal fondo del barile sempre più raschiato.

Meglio non dirlo però alla Ticosa, che sarebbe capace di escogitarne un’altra delle sue per scacciare anche le auto. Del resto, come dimostra il laghetto formatesi dentro l’area, la fantasia non le manca.

Forse per averne ragione più che un politico o un amministratore, ci vorrebbe un esorcista.

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