«Il bombardamento improvviso poi la fuga in aereo dal Sudan»

La testimonianza Silvia Bonanomi volontaria comasca racconta l’evacuazione d’urgenza con la famiglia

Nessun preavviso, nessuna escalation. Solo una vibrazione di smartphone e, improvvise, le bombe su Khartoum.

Silvia Bonanomi erbese, vive in Sudan da otto anni. Dapprima come volontaria Ovci; quindi, dal 2021, per una società francese nell’ambito della cooperazione.

Nel giro di dieci giorni, ha vissuto in prima persona l’improvvisa esplosione del conflitto sudanese tra i generali (e tra l’esercito regolare e le forze paramilitari delle Rapid support forces), le azioni tempestive dell’unità di crisi della Farnesina e, per fortuna, l’evacuazione e il ritorno in patria. Ad attendere lei e i sette volontari Ovci (Organismo di volontariato cooperazione internazionale) a Ciampino, il ministro Antonio Tajani.

«Sono tornata anch’io con il piano di evacuazione organizzato dall’ambasciata e dalla Farnesina - racconta Silvia Bonanomi - ci hanno evacuato d’urgenza da Khartoum, portati a Gibuti per una notte, e quindi riportati a Roma. Di fatto siamo arrivati solo oggi (ieri ndr) a Erba».

Come detto, un conflitto improvviso, privo di qualunque escalation. «Il sentore che qualcosa stesse accadendo c’era stato nelle settimane precedenti, quando si parlava di malumori tra i due generali protagonisti del colpo di stato del 2021. Poi, però, le incomprensioni parevano sopite. Sabato scorso, senza preavviso, l’esplosione del conflitto: nemmeno la comunità internazionale ha avuto modo di avviare i preparativi». Tanto meno chi in Sudan viveva e lavorava. «Il giorno stesso stavo organizzando con i miei figli di andare in piscina - prosegue la cooperante - Alle 9 l’ambasciata invia un messaggio Whatsapp, chiedendo a tutti gli italiani di stare in casa. Alle 9.30 è iniziato il bombardamento. Casa nostra, peraltro, è vicina all’aeroporto: abbiamo visto tutto in diretta. Cosa abbiamo provato? Un sentimento di sorpresa, non ce lo aspettavamo. Dopodiché, siamo passati a una maggiore consapevolezza, ci siamo organizzati. Il padrone di casa nel palazzo dove viviamo ha allestito una sorta di rifugio antiaereo nelle cantine, tutti i residenti si sono uniti in modo molto solidale, verificando le scorte d’acqua e di cibo».

Quindi, nel giro di pochi giorni, il piano di evacuazione della Farnesina. «All’inizio c’erano alcuni interrogativi sulle modalità di realizzazione. Alla fine, la scelta è stata di chiedere a ogni cittadino italiano di organizzarsi con mezzi propri, e raggiungere due possibili punti di raccolta: la residenza dell’ambasciatore oppure la struttura dell’Ovci al quartiere Hodurman. La residenza dell’ambasciatore si trovava in un’area teatro di scontri pesanti. Abbiamo quindi ritenuto più sicuro dirigerci all’Ovci».

Dopo il rientro in Italia, ora l’incognita più pesante è quella del futuro. «Il grande dubbio è se si riuscirà a tornare in Sudan. Ognuno dei cooperanti presenti sull’aereo della Farnesina ha la sua storia, ma quel che è certo è che ognuno ha amici e conoscenti rimasti in Sudan: impossibile non pensarci. Il rischio per loro? Essere vittime di fuoco incrociato o pallottole vaganti. E poi, oggi Khartoum è senza elettricità, gli stessi ospedali sono in piena emergenza».

Una riflessione intima e personale sulla cesura di vita perpetrata dal conflitto è, ovviamente, prematura. «Posso dire che la nostra speranza - conclude tuttavia Silvia Bonanomi - è di riuscire a tornare almeno una volta. Almeno per salutare le persone, anche se non dovesse essere più possibile lavorare lì. Sono persone che ci hanno accolto sostenuto. Mio figlio nemmeno parlava quando sono arrivata, e ora ha nove anni. È una fetta importante della nostra vita».

© RIPRODUZIONE RISERVATA