A Como sventola
bandiera colabrodo

Como città colabrodo è una splendida quanto assurda e vergognosa metafora dell’azione politica locale, in particolare, ma non solo, di coloro a cui i cittadini hanno affidato le chiavi di palazzo Cernezzi. Como città colabrodo con la piscina di Muggiò chiusa da mesi anche a causa delle perdite d’acqua, con i geyser derivanti da rotture dell’impianto di teleriscaldamento che appaiono come d’incanto nelle zone in cui è diffuso questo servizio, con i tombini di piazza Cavour che spurgano ogni volta che il lago, in attesa delle paratie, raggiunge i livelli di guardia, con perdite sotterranee che spuntano d’improvviso, terra che cede, problema complesso d’accordo ma che rimane lì in attesa delle schermaglie di un’elefantiaca burocrazia e pazienza per il disagi al traffico. Ciliegina sulla torta del colabrodo i passaggi a livello dai tempi allungati che, senza che nessuno abbia fatto un plissè rischiano di avere un impatto devastante in una città tagliata in due dalla ferrovia proprio in uno dei punti caldi del “girone”.

Ci sono poi le varie ed eventuali: il caso del dormitorio approvato dal consiglio comunale ma bloccato da una forza politica, la Lega, che sembra tenere tutti, sindaco compreso per alcune parti del corpo irriferibili e l’ennesimo (ah, ah, ah) caso paratie. Qui c’è davvero da sbellicarsi: una volta che il Comune si è tolto dalle mani la patata bollente facendola uscire dalla finestra in direzione della Regione, il tubero accalorato è rientrato dalla porta con il documento su Tavernola facente capo all’ineffabilissimo assessore Pettignano che blocca l’agognato avvio del cantiere. Tranquilli, però. Siamo tutti qui in trepidante attesa di vedere trasferire il municipio in Ticosa. Non riescono a spostare una lettera e pretendono di traslocare tutto il palazzo. Ci facciano il piacere, chioserebbe Totò.

La politica comasca in generale e palazzo Cernezzi in particolare rispondono nel brandire una bandiera con il disegno di uno scolapasta. La maggioranza comunale è sfarinata, se n’è accorto dopo le sciabolate sul dormitorio e non solo che si sono scambiate Lega e Fdi e con Forza Italia che continua con il travestimento del pesce in barile, persino il sindaco Landriscina che è uscito dal suo ridotto gozzaniano tutto aiuole da far fiorire e freschi asfalti all’alba per tentare di rimettere le truppe al passo. Intanto, i nostri esponenti extra Comune si accapigliano cercando di riprendere per i capelli ciò che si sono fatti allegramente sfuggire di mano all’epoca in cui si poteva ancora fare qualcosa. E questa, il secondo lotto della tangenziale, checché se dica dagli evanescenti quartieri pentastellati, è l’unica opera di cui ha bisogno, per non morire di traffico, la città di Como e anche la Grande Como vagheggiata a palazzo Cernezzi e spernacchiata dagli altri Comuni che non vogliono subire un contagio di inettitudine, altro che il Coronavirus. E invece il traffico ci seppellirà tutti, anche perché, come in altri ambiti, la capacità di programmare dell’attuale ceto politico e amministrativo se n’è uscita dai buchi del colabrodo. Attorno ai fori restano una città e un territorio in costante e vorticosa trasformazione urbana e sociale che nessuno si prende la briga di gestire. Anche perché ci vorrebbero un percorso chiaro illuminato e condiviso e una guida saggia capace di guardare anche un po’ più in là delle logiche e degli interessi, non si pretende di schieramento ma almeno di consorteria. Certo il colabrodo della politica non è stato forgiato oggi. Lo stampo può essere lì da un po’ di tempo da quando la politica medesima ha smesso di funzionare come elemento di sintesi e di indirizzo dei processi. Ma adesso i buchi sono veramente tanti e da lì, come si vede passa di tutto. E neppure sembra essere alle viste qualcuno che questi fori riesca a tapparli, come si spera che avvenga, perlomeno, negli ambiti dalla manutenzione di una città che dovrebbe rappresentare il programma di prima elementare di un’amministrazione comunale che si accontenta della sufficienza. Chissà, forse in Comune ci vorrebbe un’altra “fumata bianca”, diversa dalla precedente.

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